A poca distanza dalla caduta del Governo ricorre oggi il decennio della dichiarazione londinese di Mario Draghi, presidente della Bce, sulla difesa dell’euro: la dichiarazione che ebbe un netto successo e bloccò ogni tentativo di speculazione sulla moneta unica. Ne impedì la disintegrazione e con essa riuscì a prevenire le negative conseguenze politico-istituzionali. Oggi si ritiene che la dichiarazione passerà alla storia.

Naturalmente, non bisognerebbe mai trascurare che quel monito sopravveniva dopo che non molto tempo prima i Capi di Stato e di Governo dell’Unione – Angela Merkel compresa – si erano detti favorevoli, nel loro meeting, agli acquisti di titoli pubblici da parte della Banca centrale. In qualche modo le spalle erano coperte perché nessuno avrebbe potuto, a quel punto, contestare gli acquisti adombrando l’ipotesi del finanziamento monetario dei Tesori degli Stati vietato dal Trattato Ue. Lo “scudo” anti-frammentazione (il Transmission Protection instrument), varato dalla Bce giovedì,21 luglio, si ispira alla dichiarazione londinese. Mira, con gli interventi dell’Istituto, a una uniforme trasmissione della politica monetaria in tutta l’area; in sostanza, intende prevenire gli spread tra rendimenti dei titoli pubblici ingiustificati e disordinati; costituisce un passo per la normalizzazione del governo della moneta; si basa sui requisiti necessari (non su condizionalità) perché la Bce possa intervenire anche a richiesta dei Paesi interessati.

In effetti, l’innovazione esige un raccordo della politica economica e di finanza pubblica, basata sulla sostenibilità di deficit e debito e sugli equilibri macroeconomici, a livello centrale e di singoli Stati, con la politica monetaria. Non è solo un aiuto o un sostegno europeo, ma è pure un modo per richiedere coerenti azioni ai partner comunitari e per continuare sulla strada delle riforme. Proprio ora, come accennato, Draghi “ lascia”, tra gli epicedi che vengono intonati diffusamente, anche da qualcuno che ha concorso alla caduta del Governo. A un certo punto, poco manca che le dimissioni vengano attribuite pure al destino “cinico e baro”. L’analisi delle responsabilità delle dimissioni in questione continua. È fondata, ma manca di corrispondere pure al suono dell’altra campana, come oggettività vorrebbe. Si può ritenere che il discorso del Premier al Senato e la stessa replica abbiano avuto l’intento di trovare un punto d’incontro adeguato con le diverse posizioni espresse nell’alleanza di governo? Insomma, presentarsi a Palazzo Madama “per comunicazioni”, come voluto dal Capo dello Stato, aveva lo scopo di ribadire le posizioni del Premier o di ricercare, pur senza venir meno all’essenza di tali posizioni, le possibili convergenze, che però non risultano tentate?

È stato in definitiva un comportamento win-win: se accolto, il discorso, al quale non sono mancati toni ed espressioni di stampo peronista pur non voluto, avrebbe registrato un grande successo di Draghi; se non accolto, come è accaduto, ugualmente avrebbe visto un Draghi che non recede di un millimetro dalle sue posizioni e stimola rimpianti e impegni “pro futuro”, Già si ipotizza, infatti, che un risultato elettorale complesso e ambiguo, con la eventuale difficoltà della formazione di maggioranze nette, provocherebbe il ricorso a Draghi novello Lucio Quinzio Cincinnato, ricordando, però, la funzione di “dictator” del console romano. Per di più, si delinea, tra alcune forze politiche, una gara per avere la palma di portatori dell’ “agenda Draghi”, con ciò mostrandosi, tali forze, prive di una propria identità, incapaci di autonoma elaborazione programmatica, dimentiche che bisogna formulare proposte non per la fine di una legislatura, come necessariamente nell’impostazione draghiana, ma per i prossimi cinque anni, incapaci di cogliere l’autoassoggettamento a una condizione di subalternità intellettuale proprio nel momento in cui ci si dovrebbe presentare con un’immagine opposta per chiedere il voto agli elettori.

Agenda ( le cose da fare) Draghi, si ripete, senza neppure accompagnarla, come in Keynes, con il noto bilanciamento delle “ non agenda” (le cose da non fare). Ciò fa tornare alla mente quel che accadde alla caduta del Governo Monti: pure allora si parlava di un’Agenda. Si sa come poi finì. Si deve sperare che vi sia una resipiscenza, purtroppo anche nell’area che intende presentarsi come progressista e che, per ora, fa apparire lontana quella che si dovrebbe denominare, senza timori, “ sinistra”. Elaborazioni programmatiche subalterne e confuse o indeterminate relazioni tra partiti in funzione di generiche alleanze non sono di certo il modo migliore per realizzare una svolta rispetto all’oggi.