Il disegno di legge “per il mercato e la concorrenza”, in discussione al Senato fino a inizio maggio, dovrà concludere il suo iter, passando alla Camera per tornare al Senato per la terza lettura, entro metà luglio, per via di alcune riforme in esso contenute vincolanti per ricevere fondi PNRR dalla UE.

Il testo proposto dal Governo ha l’obiettivo ambizioso, tra gli altri, di fare un passo decisivo verso una reale liberalizzare del settore dei servizi pubblici locali. L’articolo 6 delega il Governo ad adottare entro sei mesi un decreto legislativo di riordino della materia, ma fissa principi e criteri chiari: la separazione tra le funzioni regolatorie e le funzioni di diretta gestione dei servizi, tra controllore e controllato dunque, e il ricorso al mercato e alla gara nell’affidamento, lasciando l’autoproduzione con organismi pubblici come soluzione eccezionale e comunque meglio regolata.

Il 93% dei servizi oggi attivi localmente nel nostro Paese è stato affidato senza gara e la Corte dei Conti descrive da anni un quadro di inefficienze, sprechi, perdite economiche, insufficiente trasparenza delle gestioni, rendite di posizione, inosservanze delle normative, aldilà di lodevoli eccezioni. La mancanza di procedure competitive nella scelta del gestore incide del resto negativamente sulla qualità offerta ai cittadini e sul costo dei servizi. Le amministrazioni locali svolgono dall’inizio degli anni 90 il ruolo di imprenditore a costi di produzione puntualmente più alti e affidando preferibilmente ad amici e amici degli amici attività che i comuni dovrebbero limitarsi a controllare, dettando le regole, e non a gestire direttamente e senza mettere in concorrenza diversi soggetti per scegliere l’offerta migliore per i cittadini.

Insomma, quella delle prossime settimane, è un’occasione di mettere mano a un settore chiave dell’economia italiana. Basta ricordare che ogni anno ben oltre 20 miliardi di euro vengono trasferiti dalle casse degli enti locali a quelle di migliaia di organismi partecipati scelti senza gara, per sussidiarli e renderne sostenibili i costi; con il disegno di legge sulla concorrenza in vigore ogni comune dovrebbe fornire una motivazione anticipata all’Antitrust tale da dar conto delle ragioni che, sul piano economico e della qualità, degli investimenti e dei costi dei servizi per gli utenti, giustifichino il mancato ricorso al mercato. Ovviamente queste ragioni nella gran parte degli affidamenti potrebbero non esserci.

Su una vera apertura al mercato, non solo nel settore dei servizi pubblici locali, ma anche in quelli delle concessioni balneari, dei taxi o ncc, del trasporto ferroviario regionale, rischia di arenarsi il percorso liberale italico, stimolato in primis dalle normative europee per le quali la concorrenza è strumento di crescita e sviluppo, oltreché, naturalmente, di maggiore libertà imprenditoriale del soggetto privato. Sono diverse centinaia del resto gli emendamenti presentati che depotenzierebbero il disegno di legge del Governo. Clientelismi e rendite di potere corroborano ancora i principali partiti italiani nelle loro articolazioni locali, non disposti, quindi, a perdere questi asset che ne legittimano ancora una forza locale e un potere di scambio di cui hanno bisogno.

Forza Italia e il Partito Democratico in primis, capaci di trovare in sé negli ultimi 30 anni qualche spinta liberale a livello nazionale, hanno abdicato alla domanda di rilevanza economico-finanziaria e di consenso delle proprie classi dirigenti locali. Il M5S ha avuto altro percorso segnato dal fallimento Raggi nella capitale guidato dalla linea ideologica del bene comune pubblico, che ha visto l’amministrazione impegnata nell’illusione di salvare i simboli dello spreco e della cattiva qualità dei servizi ATAC e AMA, finendo, la giovane grillina – al pari del suo predecessore – sommersa dai rifiuti, da bus zeppi e disservizi.

Ci sono stati passi avanti importanti di apertura al mercato, dagli anni 90 in poi, di settori quali le telecomunicazioni, il servizio postale, l’elettricità, ma anche le riforme Bersani e quella Treu e Biagi sul lavoro. Risultati ascrivibili anche alle segreterie dei partiti dei Berlusconi e dei Prodi, in aree però meno sensibili alle pressioni dei clientelismi locali. La vicenda Alitalia, simbolo del fallimento dell’intervento pubblico, oggi, con l’interruzione del flusso di fondi pubblici e le prospettive di vendita della risanata ITA, potrebbe finalmente chiudersi.

Anche la deleteria presenza dei partiti e degli enti locali nella proprietà delle banche italiche, attraverso le fondazioni bancarie, foriera di fallimenti e sprechi di soldi pubblici e che ha visto le vicende di Montepaschi e Carige solo come apice della crisi del sistema creditizio-clientelare, si è drasticamente ridotta negli ultimi 15 anni per l’incapacità di reggere sui mercati delle fondazioni, il peso azionario delle quali si è eroso grazie agli aumenti di capitale dei soggetti privati più che altro internazionali. Insomma, il percorso verso una economia di mercato aperta realmente alla concorrenza, è stato parziale ed accidentato, più subíto che voluto dai partiti, certamente subíto dai sindacati, oggi può andare a sbattere sul ddl concorrenza Draghi e sulle pressioni delle classi dirigenti locali dei grandi partiti. La federazione +Europa Azione sembra oggi l’unica organizzazione politica parlamentare non intenzionata a stravolgere il provvedimento confermando la sua vocazione liberale.

Sono stati depositati altresì molti sub-emendamenti all’emendamento del Governo sulle concessioni balneari, naturalmente diretti a “tutelare” chi potrebbe perdere l’affidamento con la gara obbligatoria da tenersi entro il 2023. Il possibile ingresso di nuovi soggetti concorrenti in un settore come questo ha portato il soccorso dei partiti verso una corporazione sempre generosa nell’assicurare consensi, visti i privilegi di cui ha potuto godere: Il 70% di chi ha avuto in affidamento “perenne” concessioni balneari ha pagato non più di 200 E. al mese con una entrata media mensile di 15 mila euro.

Dallo statalismo strutturale e ideologico di FdI, alle contraddizioni leghiste tra le istanze di aperture dell’imprenditoria nordista e quelle di chiusura populista, dall’assenza di un impianto politico grillino sulle ceneri delle prime parole d’ordine, dalle incrostazioni ideologiche della vetusta sinistra, nulla di buono sembra poter venire per la linea Draghi sulla concorrenza. Ma, in questo contesto prevedibile, il rischio che venga affondata la politica riformatrice in senso concorrenziale del Presidente del Consiglio viene in prima istanza dalle forze moderate e post ideologiche quali Forza Italia e Partito Democratico, sotto scacco degli interessi delle classi dirigenti locali e dei loro rapporti con corporazioni e sindacati.