E ora che succede? Il percorso che ci separa dalle prossime elezioni è in parte segnato dalla Costituzione, in parte affidato a prassi e consuetudini che potrebbero conformarsi al grave scenario interno e internazionale. Innanzi tutto il presidente della Repubblica ha “preso atto” – anziché accettato – le dimissioni del Governo Draghi; questo perché il Governo, come qualunque organo costituzionale, rimane comunque in carica fino alla nomina del successivo, seppur per il “disbrigo degli affari correnti”. Indi, ha deciso di sciogliere le Camere, dopo aver sentito i loro Presidenti (art. 88.1 Cost.), con proprio atto controfirmato dallo stesso presidente del Consiglio uscente (art. 89.2 Cost.), ritenendo evidentemente inutile consultare le forze politiche ai fini della formazione di un nuovo esecutivo dopo le profonde divisioni emerse al Senato.

Contestualmente il capo dello Stato indice le elezioni delle nuove Camere e fissato la loro prima riunione (art. 87.3 Cost.), nel rispetto dei termini (rispettivamente entro settanta giorni dallo scioglimento e venti dalle elezioni) previsti dall’art. 61.1 Cost. Data elettorale da individuare cercando di bilanciare due opposte esigenze: da un lato, abbreviare il più possibile i tempi elettorali per avere al più presto un nuovo governo; dall’altro evitare lo svolgimento in pieno agosto degli adempimenti preelettorali, come il deposito dei contrassegni, la raccolta delle firme (per le forze politiche non esentate) e la presentazione delle liste. Adempimenti il cui rilievo politico, al di là degli aspetti procedurali, è evidente dato che l’attuale legge elettorale, prevedendo l’elezione dei 3/8 dei parlamentari in collegi uninominali, costringerà i partiti ad interrogarsi se e con chi allearsi per la loro conquista, sicuramente decisiva ai fini della eventuale vittoria elettorale. Infine, solo dopo che le camere avranno eletto i loro Presidenti e si siano costituiti al loro interno i gruppi parlamentari, il Presidente della Repubblica potrà avviare le consultazioni per la formazione del nuovo Governo. Consultazioni la cui durata ovviamente dipenderà dall’esito delle elezioni. Se, infatti, la fatidica “sera delle elezioni” si avrà un chiaro vincitore le consultazioni saranno brevi e notarili (come nel 2008 quando durarono appena 2 giorni: 6-7 maggio); altrimenti potrebbero prolungarsi (come nel 2018 quando impegnarono, è il caso di dirlo, Mattarella dal 4 aprile al 31 maggio: 58 giorni).

In ogni caso, anche nel più ottimistico degli scenari, ci sono delle scadenze cui il dimissionario governo Draghi dovrà far fronte. Entro il 27 settembre va presentata la Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza (Nadef) per adeguarne le previsioni economiche e di finanza pubblica del Def alla luce dei dati più recenti sull’andamento dell’economia e dei conti pubblici (e Dio solo sa quale essa allora sarà). Entro il 15 ottobre va presentato il Documento programmatico di bilancio (Dpb) – che riassume i saldi e le misure della legge di bilancio – all’Eurogruppo e alla Commissione, che esprime un parere al riguardo al massimo entro il 30 novembre. Entro il 20 ottobre (ma è un termine ordinatorio) va presentato il disegno di legge di bilancio (annuale e triennale). È ragionevole supporre che si tratterà di adempimenti che il governo Draghi svolgerà sul piano formale, lasciando le scelte d’indirizzo politico al nuovo Governo. La prospettiva è dunque che, come nel 2018 e nel 2019, la legge di bilancio verrà presentata in ritardo, potrebbe essere – in caso di vittoria del centro destra sovranista – oggetto di una lunga interlocuzione con l’Ue e sarà approvata in extremis in pochi giorni tramite questione di fiducia su maxi-emendamento (prassi che la Corte costituzionale nuovamente giustificherà in nome dell’eccezionalità delle circostanze).

Al di là di tali scadenze, e indipendentemente dall’esito delle prossime elezioni, il problema oggi più urgente è stabilire quali sono i poteri che il governo Draghi potrà esercitare nei prossimi (almeno) tre mesi e comunque fino a quando non si formerà un nuovo esecutivo. Come detto, Mattarella ieri ha invitato Draghi a restare in carica per il “disbrigo degli affari correnti”. Per motivi politici e personali è stata dunque scartata la soluzione di respingerne le dimissioni, in assenza di un voto di sfiducia, come fece Scalfaro con i governi Ciampi e Dini (guarda caso entrambi “tecnici” ed entrambi formalmente non sfiduciati) perché rimanessero in carica nel periodo elettorale e continuassero ad adempiere le loro funzioni subendo le sole limitazioni che derivano dallo scioglimento delle Camere e dalla conseguente sospensione dell’attività legislativa ordinaria.

Ma cosa deve intendersi per “disbrigo degli affari correnti”? A tal fine ogni presidente del Consiglio emana una direttiva indirizzata a ministri, vice ministri e sottosegretari, di solito abbastanza simili (le ultime sono del 29 dicembre 2017 Gentiloni I -, 20 agosto 2019 e 26 gennaio 2021 – rispettivamente Conte I e II). Certamente potrebbe adottare atti urgenti, come l’approvazione di decreti leggi, dato che l’art 77.2 Cost. prevede la convocazione delle Camere, anche se sciolte, per la loro conversione entro sessanta giorni. Piuttosto, a tal fine non potrebbe più porre la questione di fiducia, essendo venuto meno con lo scioglimento delle camere il relativo rapporto. Il che amaramente dimostra come di tale strumento ormai non si possa fare a meno. Inoltre il governo Draghi potrebbe adottare le iniziative necessarie all’attuazione di impegni europei e internazionali (incluso l’invio di armi all’Ucraina), tanto più se in tal senso sollecitato da eventi gravi e/o imprevedibili, oppure imposte da emergenze interne (a cominciare da quella pandemica). In questo quadro potrebbe approvare decreti legislativi per evitare la scadenza della delega o oppure per rispettare quelle previste in sede di attuazione del Pnrr.

Al di là di ciò, in mancanza di dati testuali univoci, la formula del “disbrigo degli affari correnti”, già più ampia di quella di ordinaria amministrazione”, non esclude di per sé che il Governo dimissionario non possa assumere decisioni rilevanti di politica interna ed internazionale se supportate da un consenso che le camere, seppur sciolte, possono continuare a manifestare attraverso gli atti di indirizzo politico o consultivi (come ad esempio i pareri sugli schemi dei decreti legislativi). Quello della perimetrazione dei poteri del governo dimissionario è dunque un problema non esclusivamente giuridico ma che va posto anche sotto il profilo della correttezza, della opportunità e della sensibilità politica in relazione anche alle circostanze, previste o impreviste, in cui il Governo si troverà ad operare nei prossimi mesi.