Il dibattito
Luci e ombre della globalizzazione: sinistra, riparti da qui
1) Oltre “la indifferenza alle tesi altrui e l’aggressività distruttiva”, credo sia del tutto utile una discussione (come quella promossa dal Riformista) sulle difficoltà in cui si dibatte la sinistra politica. Facendo attenzione tuttavia al rischio, paventato da Biagio de Giovanni, di risolvere le dispute intorno alla crisi della sinistra in “espressioni dai confini indecifrabili”. Andiamo al sodo. Non sono convinto come sostiene Fausto Bertinotti che le difficoltà in cui si dibatte la sinistra siano da rintracciare nella sua separazione dal conflitto sociale e di classe. Nei suoi momenti migliori la sinistra italiana ha teso a stabilire un nesso tra le battaglie sindacali e la prospettiva politica e ha promosso la costruzione di ampi schieramenti sociali. Non muoveva in questa direzione la conduzione delle lotte che Fausto ricorda, dalla vertenza Fiat del 1980 al confronto sulla scala mobile nel 1984. Non a caso si conclusero entrambe con una sconfitta.
Non credo si possa ritornare ad una analisi della struttura sociale in termine di classi tradizionali. In ogni caso “l’autonomia di classe” vissuta come una sorta di separazione dai destini generali del mondo del lavoro e del Paese fu del tutto estranea alla cultura politica della migliore sinistra italiana. Una cultura che consentì alla sinistra, malgrado le sue contraddizioni, di contribuire alla costruzione dello stato sociale e di produrre un generale miglioramento della vita dei lavoratori e degli strati sociali più deboli e disagiati. Mi sgomenta infine la conclusione cui giunge Fausto: l’idea che, per ricostruire una alternativa, occorra che irrompano i “barbari”. Considerato che negli ultimi tempi irruzioni di barbari sulla scena politica del nostro Paese non sono mancate, con le conseguenze che ben conosciamo, sarei cauto ad auspicarne di nuove.
2) All’origine della crisi della sinistra in Europa c’è il venir meno, nell’attuale assetto dell’economia globalizzata, dei dati strutturali che erano stati alla base del successo del modello socialdemocratico. La rivoluzione informatica ha sconvolto i tradizionali processi produttivi, l’industria europea ha accelerato l’adozione di innovazioni tecnologiche che hanno teso a risparmiare lavoro con la conseguenza di un declino delle forti concentrazioni operaie; la globalizzazione dei mercati ha determinato una forte apertura internazionale delle singole economie. La interazione tra questi due grandiosi processi, diffusione dell’economia dell’informazione e globalizzazione, ha sconvolto, insieme con i sistemi di produzione, l’organizzazione del lavoro, le classi, anche i modi di vivere; ha minato i fondamentali della economia sociale di mercato.
Si sono indeboliti anche gli strumenti dell’agire politico della socialdemocrazia: sindacati e partiti di massa, funzione redistributiva della spesa pubblica, poteri dello stato nazionale nella regolazione dell’economia. L’irruzione sulla scena del mondo globale di nuovi giganti economici ha imposto la ricerca da parte dei paesi industriali europei di un maggior grado di efficienza e competitività con la conseguenza di una più accentuata flessibilità del mercato del lavoro, di una crescente liberalizzazione dei movimenti di capitale, di un ridimensionamento dell’intervento pubblico e più in generale della sfera di iniziativa dei singoli stati nazionali la cui capacità decisionale è entrata drasticamente in crisi. Da questi dati deve prendere le mosse una ricerca delle cause della crisi che ha investito la socialdemocrazia.
3) L’unico tentativo che dopo l’89 si propose un adeguamento programmatico e culturale del socialismo democratico fu quello condotto dal laburismo britannico e dalla socialdemocrazia tedesca. Lo sforzo di innovazione prendeva le mosse da una riflessione sulle trasformazioni del capitalismo e sui mutamenti sociali intervenuti. Occorreva individuare politiche che consentissero, nelle mutate condizioni, di non spezzare quello che Ralf Dahrendorf aveva chiamato “il cerchio incantato” che aveva permesso di saldare sviluppo economico e coesione sociale. Si possono avere idee diverse su come quel tentativo abbia affrontato la sfida ma quella era la questione intorno a cui ruotava la “terza via”. Riflettendo su quegli anni è il caso di ricordare che l’esperienza del New Labour garantì la più lunga fase di governo di una forza di sinistra in Gran Bretagna e coincise con un periodo di crescita di quella economia con un segno sociale progressista come è testimoniato dai dati dell’occupazione e delle politiche redistributive. Dati che parlano chiaro. Il sostegno britannico alla lucida follia della guerra americana in Iraq decise del destino politico di Tony Blair.
4) Il vero punto di debolezza della cosiddetta “terza via”, fu la mancata comprensione della dimensione sovranazionale della sfida: illudersi che la dimensione globale dell’economia portasse al mondo soltanto vantaggi e benefici e non anche drammatiche contraddizioni. Come se un velo avesse offuscato la vista del processo nel suo insieme. Questo impedì di cogliere che il grande cambiamento indotto dall’estendersi tumultuoso del processo di globalizzazione dilatava le disuguaglianze che nei paesi sviluppati avevano conosciuto una riduzione nei decenni del dopoguerra, erodeva le sicurezze collettive, metteva in questione i diritti accumulati nel corso dei “trenta gloriosi”. La sinistra non riuscirà ad affrontare questo passaggio cruciale nella storia del capitalismo, a costruire un “blocco sociale” capace di saldare i ceti medi con la tradizionale rappresentanza di ceti popolari, di tenere insieme le ragioni dei diritti e quelli dello sviluppo economico nell’epoca in cui prevale il gioco duro della globalizzazione.
5) È in grado la sinistra di venire fuori da una tale situazione? Come? Occorrerà prima di tutto una valutazione seria e meditata della globalizzazione. Un grande fatto storico al centro del quale non ci sono solo drammi e ingiustizie ma anche l’emergere al lavoro moderno e ai consumi di masse umane vissute fino a ieri nell’abisso della miseria e dell’anonimato. Sia Joseph Stiglitz che Branko Milanovic, sia Dano Rodrik che Colin Crouch ritengono che la globalizzazione abbia permesso il conseguimento di traguardi di grande rilievo in materia di sviluppo economico, tutela dei diritti civili, riduzione dei conflitti ed elevazione di standard sanitari. Autori che allo stesso tempo evidenziano le diseguaglianze e le dissimmetrie tra strati sociali, tra grandi città ed aree interne che la globalizzazione ha alimentato, nonché le esclusioni che ha prodotto nei confronti di regioni consegnate al sottosviluppo, gruppi sociali colpiti dalla deindustrializzazione di grandi centri un tempo fiorenti.
In sostanza, abbandonata al gioco senza regole delle forze che condizionano il mercato secondo logiche finanziarie e speculative, la globalizzazione provoca conseguenze sociali dirompenti. Abbiamo imparato in questi anni che, malgrado mercati finanziari ampi e tecnicamente raffinati, il mondo occidentale, come scrive Gianni Toniolo, “si è risvegliato alla realtà che le crisi sono e (probabilmente) saranno a lungo con noi”. Quale è dunque la questione che non dovrebbe sfuggire? Passare da un mondo senza governo adeguato ad un governo multilaterale incardinato su istituzioni in grado di ridurre gli squilibri e di ottimizzare l’uso delle risorse del pianeta. È una impresa ardua che la sinistra dovrà assumere come propria. Senza questo orizzonte l’azione della sinistra è destinata a isterilirsi e rifluire in un ambito provinciale. Soltanto attori e culture politiche sovranazionali posseggono le risorse per condizionare processi altrimenti affidati alle tendenze spontanee del mercato.
6) Solo un approccio cooperativo può consentire di affrontare il groviglio di problemi in cui si dibatte l’economia globale. Questo è il terreno su cui il riformismo può reinventarsi senza cedere alla tentazione della scorciatoia illusoria del ritorno a vecchie ricette del passato. Un compito difficile ma meritevole di essere perseguito con tenacia, intelligenza e lungimiranza. Naturalmente, occorre una cultura politica, un insieme di idee condivise che permetta di orientarsi in una realtà sociale sempre più complessa e di elaborare un progetto politico capace di mobilitare forze, intelligenze, passioni. Una cultura politica che tenga strettamente uniti gli aspetti più desiderabili di una concezione liberale e di una socialista. Quella liberale, del riconoscimento dei meriti e della uguaglianza delle opportunità per le persone; quella socialista incentrata sull’idea di equità sociale e sulla riduzione delle diseguaglianze. Ragionando così la sinistra fa propri i tratti di quel liberalismo progressista o inclusivo che si batte perché i meriti e i talenti siano riconosciuti e sia permesso a tutti di raggiungere un tenore di vita adeguato. Per chi lo avesse dimenticato si chiama socialismo liberale.
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