Vorrei dire la mia, intervenendo nel dibattito che si è aperto sulla crisi della sinistra, quasi un corsivo il mio, che tiene presente, senza ricordarli esplicitamente, i molti articoli pubblicati dal Riformista sul tema. Muovo da una convinzione che a me pare di grande evidenza: quella che abbiamo sempre chiamato “sinistra” è in gravissima difficoltà per la ragione semplice e profonda che il movimento operaio è morto, non esiste più. E se la sinistra era la sua coscienza, la sua rappresentanza, queste restano campate per aria, si ritrovano senza più la realtà di cui essere coscienza e rappresentanza, e quasi non esistono più.

È finito il movimento operaio come movimento complesso, pieno di idee, di correnti diverse, di letture della storia, di visioni istituzionali, concezioni dello Stato, di progetti di riforma, addirittura di previsioni sul destino dell’umanità.
Le ragioni sono tante: dalla fine ingloriosa del 1917, alla influenza ormai ridottissima delle socialdemocrazie dove sono ancora debolmente esistenti, conferma di un’acuta previsione di Dahrendorf che disse: fine del comunismo e, con esso, anche fine -progressiva nel tempo- delle socialdemocrazie, un intero ceppo che va in archivio, lasciando qua e là residui, ma non più di tanto. Culture intere sono andate in soffitta, ma si capisce che questo loro destino, come spesso avviene, è determinato dal mutamento radicale di ciò che accade intorno a noi: la fine del lavoro organizzato, la fine della classe, oggi atomisticamente e illeggibilmente diluita: cose che includono inevitabilmente l’esaurimento del conflitto sociale come lo abbiamo conosciuto nei tempi del movimento operaio organizzato, con la presenza intelligente, insieme, di conflitto e mediazione e di tanta solidarietà interna.

Quale meraviglia? Lo strano è meravigliarsi che ci sia confusione e incertezza “a sinistra”, quando un mondo intero è finito. I conflitti sociali, di classe o di massa, erano incardinati in una storia che si è conclusa, nelle idee e nella realtà. Il capitalismo era nazionale e produttivo, oggi è globalizzato e largamente finanziario, cambia tutto quando si incrinano i confini degli Stati-nazione e delle loro strutture sociali. È la conclusione storica del compromesso tra democrazia e capitalismo, che c’è stato, se pure attraversato dalle sue vicende alterne. Le parole “classe” e “movimento operaio” non sono sostituite da quella opposizione ambigua tra “ultimi e penultimi”, terminologia oggi assai in voga, in mancanza d’altro, espressione dai confini indecifrabili e dalla rappresentatività vuota di senso, un vero segno dei tempi. Le ineguaglianze restano senza nome. E allora? Di sicuro, la crisi della sinistra è in corso, e non se ne vede l’uscita. Qui ci si limita a proporre un tema di lunga durata: la lotta va trasferita a livello sovranazionale e globale, altrimenti è senza risposte fondate.

L’inusitata povertà delle proposte politiche intorno ai temi che erano patrimonio della sinistra, spesso vere chiacchiere, parole al vento, sta anzitutto nel loro rinchiudersi in confini nazionali, mentre il capitalismo dilaga oltre ogni confine, aiutato dall’egemonia della dimensione tecnologica su ogni altra. Più problematico il compromesso con esso, che peraltro non va considerato solo come il demonio che assorbe il mondo, ma anche come elemento essenziale, nelle sue prepotenze da combattere, per la ricchezza delle nazioni. Ma l’Occidente, e soprattutto l’Europa, se non vuol morire come civiltà del conflitto da cui nasce la politica -primo maestro Machiavelli– può costruire solo al proprio livello unitario risposte capaci del necessario compromesso. Solo l’Europa può trattare con il capitalismo globale e le sue prepotenze. La sinistra, non sorretta da movimenti di classe che non ci sono più, deve rinascere da una volontà seria e operosa di unità politica europea, capace di contribuire a creare, con le necessarie alleanze, la cultura di un riformismo occidentale. Finalmente pensabile, se si costruisce la passerella giusta e collaborativa fra la dimensione nazionale e quella sovranazionale, attualissima per l’incalzare di problemi globali e per difendersi dall’invadenza delle democrazie dispotiche e delle loro prepotenze geo-politiche.

Ci vorrà tempo, ma è sempre così per le grandi opzioni, oggi rese possibili nel quadro di un mondo preda del caos.
Riformismo europeo, come quello appena avviato con la pandemia, tutto da riempire di contenuti, oltre le vecchie culture e tradizioni. Le risposte vissute solo dall’interno degli Stati, sulla scia di un passato che non c’è più, sono necessarie, su di esse si deve ovviamente lavorare, ma nella consapevolezza che da sole non aprono al futuro, e possono risultare inefficaci nel caos del mondo globale.

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