Si ha l’impressione che il Paese si stia abituando al nuovo regime a-democratico. È come se il governo, cioè la pratica del governare, dovesse essere messo al riparo da una politica capace solo di giochi di potere. È come se fosse in atto una piccola rivoluzione passiva, come se cioè il nuovo corso dello sviluppo della sua costituzione materiale conducesse l’assetto istituzionale laddove esso è atteso dal processo di ristrutturazione capitalistica in corso in Europa. La separazione dal regime di democrazia parlamentare sembra avvenire ora senza particolari strappi come lungo una linea di continuità, nella quale non si produce né un conflitto politico per interromperla, né una significativa opposizione popolare.

Per quanto astrattamente il fenomeno possa apparire sorprendente, in realtà non è difficile trovarne le cause. Il logoramento, fino alla crisi della democrazia parlamentare, ha occupato ormai un quarto di secolo dopo la fine di quella che è stata chiamata la prima Repubblica e la sua analisi critica riempie, attraverso i suoi lavori, un’intera biblioteca. L’avvento di un accadimento straordinario, la pandemia, ha determinato una condizione di emergenza che è stata affrontata sul terreno istituzionale con un’ulteriore impennata governativista e con la parallela marginalizzazione del Parlamento. Senza dover ricorrere al salto drammatico della proclamazione dello Stato di eccezione e la conseguente nascita del nuovo sovrano, con questa tenaglia, ha preso corpo insieme alla pandemia un singolare governo oligarchico, nel quale si sono sospesi i confini tra politica e tecnica, tra politica e scienziati, configurando un nuovo tipo di esecutivo sostanzialmente al riparo da una significativa dialettica parlamentare. È stato il secondo governo Conte.

Ma siccome anche in politica, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, una crisi improvvisa ha colpito insieme il governo e ha certificato il fallimento di quella politica, di quel poco di politica che era residuato nel governo dell’emergenza. Anch’essa doveva quindi lasciare il campo a un più organico assetto tecnico-oligarchico. Nasceva con Draghi, il governo dei due presidenti, con un nucleo centrale a immagine e somiglianza del capo del governo, e con i partiti, quasi tutti associati, chiamati a esercitare ruoli di complemento. Si è affermato così un assetto tecnico-oligarchico che guadagna terreno come necessitato dalla conferma quotidiana dell’improponibilità del gioco partitico esistente. Il carattere tecnico non dipende solo dal connotato del suo Presidente, ma proprio dalla natura del governo, le cui misure si presentano a loro volta oggettive. Si delinea, così, una divisione del lavoro politico regressiva dal punto di vista della democrazia. In essa, il governo è titolato a compiere le scelte programmatiche e ai partiti è consegnata soltanto la possibilità di fare propaganda. È ancora l’eutanasia della politica. Le reazioni sociali sono per ora sottotraccia, mentre l’opinione pubblica sembra adattarsi al nuovo ciclo, almeno quella dei sondaggi e delle comunicazioni di massa.

Da qui, l’interrogativo se ci si stia abituando al nuovo regime. Vi concorrono molti fattori: la campagna dei vaccini pare sfociare nell’uscita progressiva dal regime delle chiusure e del confinamento; la chiamata dello Stato in soccorso al mercato fa crescere nell’opinione pubblica il bisogno di efficacia dell’azione dello Stato medesimo che, vista la condizione penosa della pubblica amministrazione, rischia di far morire una domanda di intervento d’autorità e di liberazione dai “lacci e lacciuoli” dell’ordinamento e delle garanzie. Il vuoto totale di dibattito pubblico sul futuro del nostro Paese premia la tecnica nei confronti della politica. Intanto, per parte sua, il governo dei due Presidenti macina il suo grano. Atti che ieri ancora avrebbero suscitato una qualche reazione sono accolti passivamente e sono diffusamente considerati come determinati dalla crisi della politica, peraltro davvero impressionante. Un atto come il Recovery Plan viene approvato dal Parlamento in pochissimi giorni, neanche il tempo dell’avvio del dibattito.

Si pensi, per aver un’idea della marginalizzazione del Parlamento, ai mesi di lavori parlamentari necessari per il varo di una finanziaria, di una legge di bilancio, leggi peraltro di minor peso rispetto a ciò che ora è invece approvato in pochi giorni. Le riforme di razionalizzazione che dovrebbero accompagnarlo subiscono una analoga sorte. Non si discute infatti se il Paese, oltre a quelle di razionalizzazione, necessiti con almeno pari urgenza di riforme sociali, come, solo per fare un esempio, uno statuto di tutte e tutti i lavoratori per garantire i diritti oggi loro negati o gravemente compromessi. Né si discute delle riforme di razionalizzazione ciò che dal loro stesso interno vada oltre. Basti pensare, sul fisco, a questioni come la patrimoniale e la tassazione sulle grandi ricchezze e sulla giustizia, sempre per fare solo qualche esempio, a questioni come l’amnistia, l’indulto o lo stato di chi vive nelle carceri. Sembra normale persino ciò che in un regime parlamentare sarebbe considerato inammissibile.

Basti un caso: la Commissione europea chiede, a garanzia del piano di aiuti, la tempistica per l’Italia delle riforme di accompagnamento richieste. Il capo del governo avrebbe risposto a questa interrogazione: “Garantisco io”. Basta così. Non è neppure decisivo che Draghi abbia detto o no quella frase, è decisivo che così è, con buona pace di ogni forma di democrazia rappresentativa. La nave va e la rotta è nelle mani del Governatore. La riforma di fatto della forma di governo del Paese è da tempo un processo in atto. È un processo profondo che però avviene ora anche in superficie e cresce senza grandi scosse. A meno che qualcosa si spezzi nel profondo della società e trovi qualcuno dall’interno del quadro politico-istituzionale esistente disposto a interpretarlo. La diffusa e aspra crisi sociale rende sempre possibile questo imprevisto. Maurizio Landini ha detto recentemente che il governo sta sottovalutando la crisi sociale a proposito dei licenziamenti.

Per tutta risposta Draghi ha addirittura peggiorato la proposta del governo sulla loro proroga dando ragione alla Confindustria. Ma è sul decreto Semplificazioni che Landini prevede uno scontro aperto se il governo farà la scelta che sembra prepararsi con la liberalizzazione del subappalto, le gare al massimo ribasso e l’appalto integrativo. «È una vera scelta indecente quella che si appresta a fare il governo», ha detto il Segretario della Cgil. È assolutamente vero. Le ricadute sulla condizione di lavoro, com’è stato già misurato drammaticamente in precedenti analoghi, sarebbero durissime: bassi salari, drastiche riduzioni dei diritti di chi lavora negli appalti, abbattimento delle condizioni di sicurezza nel lavoro. Altro che l’indignazione di qualche giorno per i morti sul lavoro! In ogni caso, sarebbe una scelta del genere, da parte del governo, la spia di una più generale cultura politica che considera il lavoro una pura variabile dipendente dall’economia.

Il leader del maggiore sindacato italiano si dice pronto, nel caso le intenzioni del governo si realizzassero, allo sciopero generale. L’annuncio è, com’è evidente, di grande portata. Se si realizzasse, l’imprevisto renderebbe allora evidente cosa si cela sotto l’apparente neutralità del nuovo assetto di governo e, da qualche parte, potrebbe cominciare a farsi luce la politica.

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Politico e sindacalista italiano è stato Presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008. Segretario del Partito della Rifondazione Comunista è stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature ed eurodeputato per due.