Mario Draghi è al governo da circa 50 giorni, la metà di quei “cento” fatidici che – da Franklin D. Roosevelt in poi – sono diventati il parametro della capacità innovativa e riformatrice di un esecutivo chiamato a fronteggiare una grave crisi. Non è il caso allora di affrettare giudizi (come hanno iniziato a fare gli ospiti delle “fumerie d’oppio” televisive), ma di anticipare qualche caveat. Del resto SuperMario si sarà già accorto da sé che per salvare l’euro e l’Unione europea ci si impiega meno tempo di quello occorrente per sistemare dei deretani sulle poltroncine di sottosegretario.

Se qualcuno nel board della Bce si metteva di traverso, erano sufficienti un paio di telefonate a Mutte Angela, per risolvere il problema. Da noi – come ha individuato il suo inventore nel caso dell’attuale esecutivo – è sempre bene consultare il Manuale Cencelli, anche perché, col tempo, è sorta un’ulteriore complicazione: chi è nominato vice-ministro e chi deve accontentarsi di un sottosegretariato, magari in un Dicastero senza portafoglio? (Mi si nota di più – direbbe Nanni Moretti – se sono vice ministro in un dicastero di seconda fila o sottosegretario in uno pesante?).

Poi, al primo appuntamento con il decreto Sostegni, il premier è stato costretto a rinviare di qualche ora la riunione del Consiglio dei Ministri, per impegnarsi in prima persona nel trovare in materia fiscale una mediazione tale da consentire a tutti di cantare una mezza vittoria. Da persona seria, in conferenza stampa, Draghi non ha esitato a usare la parola condono, senza ricorrere a quegli artifici che di solito usano i governi quando, per tante ragioni, sono costretti a “ristorare” chi non ha pagato le imposte. I condoni, in realtà, sono atti di fornicazione politica che tutti i governi commettono, negando il peccato nel confessionale dell’opinione pubblica, ma pronti a denunciare quello altrui.

Quanto al decreto legge ora all’esame del Parlamento (un’altra corsa a ostacoli da compiere), non è cambiato solo il nome, ma anche la sostanza rispetto alla sequela dei provvedimenti del Conte 2. Nelle leggi anche la forma acquista sostanza. Il decreto Sostegni è composto di 44 articoli, un numero sottomultiplo di quelli a cui ci aveva abituato il governo precedente. Inoltre, si nota una concentrazione di risorse (32 miliardi) su snodi cruciali (attività produttive, lavoro e famiglia, salute, scuola-università, enti locali, fisco oltre ad alcuni interventi settoriali) e non una frantumazione su tanti obiettivi, spesso discutibili e clientelari. È sufficiente un solo esempio: alla voce “sanità” (con un impegno particolare alla campagna delle vaccinazioni) è destinato un ammontare di 5 miliardi, pari a quello che il governo Conte 2 aveva impegnato per il cashback (una misura non solo inutile, ma controproducente rispetto alle restrizioni previste a salvaguardia dal contagio). Sul piano della tecnica legislativa, nel decreto Draghi si intravvede uno sforzo per scrivere delle norme cosiddette auto-applicanti e ridurre di conseguenza la decretazione ministeriale applicativa: una pratica, questa, a cui facevano ricorso i provvedimenti del Conte 2, scaricando in questo modo una grande mole di lavoro sui ministeri interessati e ritardando di fatto (clamoroso il caso del decreto Semplificazione) l’attuazione delle misure.

E ovviamente lasciando i destinatari in attesa dei “ristori” promessi. Ma – se non ora – tra poco, SuperMario dovrebbe porsi una domanda: “non farò la fine del Conte 2, costretto a rincorrere il virus lungo percorsi imprevedibili e a passare da un dpcm che impone chiusure discutibili e comunque sempre penalizzanti per taluni settori produttivi (sempre i soliti) a un decreto legge che – in un modo o in un altro – è impastato di assistenza?”. Perché – è ovvio – anche restando nel campo dei sussidi, è possibile fare meglio di prima; ma quando le scelte di politica economica e le riforme restano condizionate dalle chiusure assunte per “mitigare” la curva dei contagi (con risultati peraltro deludenti) è difficile parlare – almeno per quanto riguarda la strategia – di “discontinuità”. È vero. Senza mettere in sicurezza le persone (a partire da quelle più fragili e dagli operatori in prima linea) attraverso una vaccinazione di massa diventa impossibile convivere con il virus, perché gli ospedali continueranno a essere presi d’assalto da chi lo ha contratto, mentre resteranno esclusi i pazienti di altre patologie ben più gravi e letali del virus maledetto.

Ma per quanto ancora potrà reggere una strategia dei due tempi se il primo – la campagna di vaccinazioni – stenta a decollare? Non basta sostituire (come ha fatto il premier con sollecitudine encomiabile) lo stato maggiore per vincere una guerra. Avevamo capito altre cose dall’ascolto e dalla successiva lettura del suo discorso sulla fiducia. «Il Governo – questa sembrava essere la nuova linea – farà le riforme ma affronterà anche l’emergenza. Non esiste un prima e un dopo». Poi se in conferenza stampa, ha affermato che adesso è il momento di spendere, Draghi non può esimersi da un primo caveat, in vista degli altri 21 miliardi di scostamento di bilancio annunciato. «Una domanda che non possiamo eludere – disse il premier il 17 febbraio – quando aumentiamo il nostro debito pubblico senza aver speso e investito al meglio risorse che sono sempre scarse. Ogni spreco oggi è un torto che facciamo alle prossime generazioni, una sottrazione dei loro diritti».

Quanto alla Scuola, ormai chiusa in tutta la Penisola senza valide ragioni, Draghi sembra essersi deciso a riaprire dopo Pasqua. Parole nuove furono dette anche in materia di parità di genere, ma è arduo ricondurre – ecco un secondo caveat – quegli stessi concetti al progetto di Andrea Orlando il quale ha ipotizzato la creazione di meccanismi di piattaforme anonime sulle quali denunciare chi viola l’articolo 27 del codice delle Pari opportunità ovvero il divieto di fare «domande sulla vita personale alle donne al momento dell’assunzione». Infine, sul fronte del lavoro, il governo ha firmato un “pagherò” (a babbo morto?). Nessuno si aspettava che alla fine di marzo venisse a scadenza il blocco dei licenziamenti, ma almeno che si avviassero quelle modifiche che erano circolate nel dibattito sotto il titolo di “blocco selettivo” o di qualche altra definizione simile. Questo scenario è stato posticipato, a seconda della tipologia delle aziende, al 1° luglio ovvero al 1° novembre, con annessa proroga della cig da covid-19. E non finirà così.

Il neosegretario della Cisl Luigi Sbarra, in una intervista, ha già messo le mani avanti: «La proroga al 30 giugno del blocco generalizzato dei licenziamenti è solo un primo passo. La situazione economica, sociale, sanitaria continua a essere drammatica. Per questo continuiamo a chiedere l’estensione dello stop dei licenziamenti senza selettività per tutta la durata dell’emergenza sanitaria ed un forte investimento sui contratti di solidarietà difensivi ed espansivi per salvare i posti di lavoro ed evitare esuberi nei comparti e settori economici». Ma c’è una presa di coscienza che non può essere ulteriormente prorogata. Non usciremo mai da questa tragedia senza un bagno nella realtà, senza accettare una condizione di rischio, da gestire nel migliore dei modi possibili, ma nella consapevolezza che, ad un certo punto, dovrà pur prevalere una logica di costi e benefici, sia nel saldo tra decessi e guarigioni, sia in quello tra la tutela della salute e le esigenze dell’economia. Torna alla mente, a questo proposito, una frase di Seneca: «Sono più le cose che ci spaventano di quelle che ci minacciano effettivamente, e spesso soffriamo più per le nostre paure che per la realtà».