L’insediamento del governo Draghi è avvenuto nel mezzo di una discussione già iniziata, a livello di commissioni parlamentari, sulla riforma fiscale. Nel discorso di insediamento Draghi ha dato alcune indicazione sulla linea che il governo intende seguire. Ovviamente il discorso non era la sede per entrare nei dettagli, ma conteneva almeno un paio di osservazioni molto interessanti, una relativa alla sostanza e un’altra relativa al metodo.

Per quanto riguarda la sostanza, Draghi ha citato l’esperienza danese, dove una commissione di esperti ha elaborato un progetto che «prevedeva un taglio della pressione fiscale pari a 2 punti di Pil. L’aliquota marginale massima dell’imposta sul reddito veniva ridotta, mentre la soglia di esenzione veniva alzata». Anche se introdotto semplicemente come esempio, è probabile che la citazione di quel progetto indichi una strada che Draghi presume sia percorribile anche in Italia. Da un lato, una riduzione complessiva della pressione fiscale. Dall’altro, una riduzione bilanciata delle aliquote che porti a un attenuamento dei balzi draconiani delle aliquote marginali ora esistente. L’aliquota marginale Irpef infatti passa dal 27% al 38% a 28.000 euro, un balzo abbastanza inusuale. Questi balzi si possono ridurre, mantenendo al tempo stesso la progressività, solo abbassando l’intera struttura delle aliquote, con particolare attenzione alla fascia di reddito 28.000-55.000 che ora è pesantemente penalizzata.

Questa, probabilmente, è la ragione per cui Draghi ha menzionato in modo congiunto l’aumento della soglia di esenzione (corrispondente a una riduzione dell’aliquota per i livelli bassi di reddito che pagano imposta positiva) e la riduzione dell’aliquota più alta, con l’idea che tutte le aliquote intermedie dovrebbero a loro volta scendere. Bisogna anche riconoscere che 2 punti di pressione fiscale non cambieranno in modo decisivo la posizione dell’Italia nel panorama internazionale. I dati Ocse sulla pressione fiscale nel 2018 segnalano un 41,9% per l’Italia. I paesi del nord Europa, insieme a Francia e Belgio, hanno tipicamente una pressione più alta (il massimo è raggiunto dalla Francia, con il 45,9%; seconda è la Danimarca con 44,4%). I paesi dell’Europa meridionale hanno invece una pressione più bassa. La Spagna, paese più vicino a noi per reddito pro-capite, ha una pressione del 34,6%. Una riduzione di due punti ci porterebbe intorno al 40%, comunque più alto del livello tedesco (38,5%) e olandese (38,8%). In altre parole, la pressione resterebbe alta. Bene quindi non aspettarsi miracoli.

Va inoltre aggiunto che Draghi è indubbiamente cosciente che l’unico modo serio in cui si può abbassare in modo permanente la pressione fiscale è attuando al tempo stesso una riduzione di pari ammontare del rapporto tra spesa pubblica e Pil. Viste le difficoltà che ogni governo ha nel ridurre il rapporto tra spesa pubblica e Pil, prospettare forti diminuzioni della pressione fiscale appare decisamente irrealistico, e sicuramente non nello “stile Draghi”. Indubbiamente la maggior credibilità del paese consentirà di risparmiare un po’ di spesa per interessi, ma questo basterà a malapena a compensare i danni fatti dai governi Conte I e (in minor misura) Conte II. Non sappiamo inoltre fino a quando tale effetto durerà.

Veniamo ora alla osservazione di metodo. Draghi ha insistito su una riforma complessiva del sistema fiscale, indubbiamente la miglior opzione se si è sicuri che tale riforma arriverà a traguardo. A parte gli argomenti standard che consigliano un intervento sistematico e non parziale, Draghi ha anche fatto esplicitamente una osservazione di carattere strategico, affermando che «un intervento complessivo rende anche più difficile che specifici gruppi di pressione riescano a spingere il governo ad adottare misure scritte per avvantaggiarli».

Ma la questione è se effettivamente c’è il tempo per una riforma complessiva. Anche se il governo Draghi durerà fino alla fine della legislatura (ossia, se Draghi non verrà eletto Presidente della Repubblica tra un anno), è improbabile che un processo lungo e complesso come quello della riforma fiscale possa giungere a termine in tale lasso di tempo. Dobbiamo quindi sperare che il prossimo Parlamento sarà molto migliore di quello corrente e possa portare a termine in modo utile e sensato il processo di riforma. Difficile dire qual è la probabilità che questo effettivamente succeda, ma l’esperienza seguita al governo Monti non incoraggia certo l’ottimismo.

In ogni caso, Draghi si è lasciato una via di uscita parlando esplicitamente solo di riforma Irpef. In realtà una riforma fiscale completa dovrebbe toccare tutte le tasse, ma in questo modo si rischia veramente di dare al legislatore un compito eccessivamente complesso. Dato che il peso dell’imposta personale sul reddito tende a essere maggiore che in in altri paesi Ocse, ha senso cominciare da questa tassa, sperando che nel frattempo iniziative estemporanee (l’ultima in ordine di tempo è stata la “flat tax per gli autonomi” del governo Conte I) non producano effetti di controriforma e ulteriore frammentazione dell’imposta. Non è che il lavoro da fare manchi: a parte i cambiamenti nelle aliquote, deduzione e detrazioni vanno sfoltite e razionalizzate, “bonus” ed eccezioni varie vanno eliminate e così via. Tanto lavoro, che avrà bisogno dell’attenzione costante del governo.