È da quando frequentavo il liceo che mi porto appresso un brano di Concetto Marchesi: «Di parole che tutti odono sono scritte le frasi che nessuno ha udito mai». Certo “mai” è un avverbio impegnativo e non può essere usato, con disinvoltura, nella circostanza a cui intendo riferirmi. Ma nella comunicazione che il presidente Mario Draghi ha svolto alle Camere vi sono delle frasi che sembrano scolpite nel bronzo, che tracciano nel contesto politico un solco che non ammette ambiguità. «Sostenere questo governo – ha detto Draghi – significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro, significa condividere la prospettiva di un’Unione europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei periodi di recessione».

Erano anni che non si sentivano, in Parlamento e nel Paese, affermazioni tanto nette, senza “se”“ma”, perché non solo i sovranisti dichiarati, ma anche molti europeisti confessi, sentivano il dovere di corredare il loro atto di fede con delle distinzioni, delle critiche, delle prese di distanza («Europa sì, ma non così») per non sembrare troppo codini e proni ai “burocrati di Bruxelles” non votati dagli elettori. A chi scrive è capitato – persino prima del 4 marzo 2018 – di essere presentato in una trasmissione televisiva come un difensore delle cause perse in quanto difensore della Ue. Allora era “fico” attaccare Bruxelles senza rendersi conto di tirare la volata ai sovranpopulisti. Mario Draghi non si è limitato a quest’affermazione di principio. Ha aggiunto al concetto di sovranità il requisito della condivisione; ed è stato ancor più determinato e assertivo quando ha ribadito che «senza l’Italia non c’è l’Europa. Ma, fuori dall’Europa c’è meno Italia. Non c’è sovranità nella solitudine. C’è solo l’inganno di ciò che siamo, nell’oblio di ciò che siamo stati e nella negazione di quello che potremmo essere».

Draghi usa uno stile semplice; si direbbe quasi che i suoi discorsi siano scritti in inglese poi tradotti in italiano. Procedono per periodi brevi uno a seguito dell’altro (soggetto, verbo, oggetto) con una sintassi semplice e priva di subordinate e di concessioni alla retorica. È il medesimo stile di Emmanuel Macron, il quale nel suo famoso discorso alla Sorbona espresse, in forma più ampia e articolata, la medesima dottrina di un nuova “sovranità” in chiave europea, immaginata sul medesimo leitmotiv che fu alla base dell’inizio del percorso: la messa in comune – con l’istituzione della Ceca – di quelle risorse energetiche, economiche e produttive il cui possesso fu la causa di due terribili conflitti mondiali. Sei, secondo il presidente della Repubblica francese, erano “le chiavi della sovranità futura dell’Europa”: la sicurezza attraverso una Difesa comune anche contro il terrorismo e la criminalità; il diritto d’asilo e l’accoglienza; la politica estera; la transizione ecologica; la trasformazione digitale; la lotta alla disoccupazione. In sostanza, la sovranità non poteva essere l’isolazionismo, il fare da sé anche a costo di ignorare le ragioni dell’equilibrio e della sostenibilità delle politiche. La sovranità del prossimo futuro doveva essere – secondo Macron – «potenza economica, industriale e monetaria’».

Non è più l’epoca in cui le nostre economie possono crescere come se fossero chiuse – sostenne nel “Discorso” il presidente francese – come se i talenti non si muovessero e come se gli imprenditori fossero attaccati a un palo. Quanti promettono di invertire il corso della storia contrabbandando delle idee «che si presentano come capaci di risolvere i problemi rapidamente». Mentre «le passioni tristi dell’Europa sono ancora qui, che tornano davanti a noi, e seducono. Fanno dimenticare la scia di distruzioni che, nella storia, le ha sempre seguite. Rassicurano, e, oso dirlo, possono prendere il sopravvento» (…) «perché abbiamo smesso di difendere l’Europa, di proporre delle idee. Abbiamo permesso che s’instillasse il dubbio».

Non sono trascorsi molti anni da quando Macron pronunciò queste parole che rappresentarono l’inizio del riscatto dei valori comunitari, quando ormai le forze sovraniste sembravano invincibili, mentre oggi «risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza». E l’Italia – dopo gli sbandamenti degli ultimi anni – ha ripreso il posto che le spetta, dalla parte giusta. Anche in politica estera la rotta riprende il tracciato tradizionale rimuovendo ogni impressione che le conferme a bocca stretta fossero solo omaggi rituali, formulati più per darsi un bon ton che per convinzione: «Nei nostri rapporti internazionali questo governo sarà convintamente europeista e atlantista, in linea con gli ancoraggi storici dell’Italia: Unione europea, Alleanza Atlantica, Nazioni Unite». Putin e il presidente “Ping” sono avvertiti.

Poi vengono i problemi dell’emergenza sanitaria. E anche qui emerge un’impostazione nuova. Se la lotta alla pandemia e innanzi tutto il piano per le vaccinazioni sono un’assoluta priorità a cui dedicare tutte le disponibilità del Paese (e non solo le “primule”) Draghi fornisce un’analisi diversa della realtà e della strategia adottata fino ad ora: «Alcuni pensano che la tragedia nella quale abbiamo vissuto per più di 12 mesi sia stata simile ad una lunga interruzione di corrente. Prima o poi la luce ritorna, e tutto ricomincia come prima. La scienza, ma semplicemente il buon senso, suggeriscono che potrebbe non essere così». Ecco perché non possono esistere due tempi: prima si sconfigge il virus (in un alternarsi di aperture/chiusure/ristori/cig/blocco dei licenziamenti) poi si riparte come prima, meglio di prima. Perché, spiega Draghi, è in campo «una domanda che non possiamo eludere quando aumentiamo il nostro debito pubblico senza aver speso e investito al meglio risorse che sono sempre scarse. Ogni spreco oggi è un torto che facciamo alle prossime generazioni, una sottrazione dei loro diritti».

I giovani (e le donne ben al di là delle “quote rosa”) devono essere il punto di riferimento della Nuova Ricostruzione, con lo stesso spirito di sacrificio e la medesima lungimiranza che ebbero i nostri padri e nonni nell’immediato dopoguerra. In sostanza l’emergenza non la si sconfigge con i ristori, che pur vanno migliorati e con le chiusure, da ora in poi annunciate «con sufficiente anticipo». Il Governo farà le riforme ma affronterà anche l’emergenza. «Non esiste un prima e un dopo». E come potranno le riforme affrontare le questioni dell’emergenza? «Il punto centrale – secondo Draghi – è rafforzare e ridisegnare la sanità territoriale, realizzando una forte rete di servizi di base (case della comunità, ospedali di comunità, consultori, centri di salute mentale, centri di prossimità contro la povertà sanitaria). È questa la strada per rendere realmente esigibili i “Livelli essenziali di assistenza” e affidare agli ospedali le esigenze sanitarie acute, post acute e riabilitative. La “casa come principale luogo di cura” è oggi possibile con la telemedicina, con l’assistenza domiciliare integrata». È arbitrario concludere questo ragionamento ribadendo l’esigenza di considerare il covid-19 come una malattia e non come l’annuncio del Giudizio universale?

Per quanto riguarda la scuola: «non solo dobbiamo tornare rapidamente a un orario scolastico normale, anche distribuendolo su diverse fasce orarie, ma dobbiamo fare il possibile, con le modalità più adatte, per recuperare le ore di didattica in presenza perse lo scorso anno, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno in cui la didattica a distanza ha incontrato maggiori difficoltà». Sembra evidente il richiamo ad un cambio di linea perché non si incrementa il capitale umano con il simulacro di una DaD “a macchia di leopardo” che spesso non varca il confine del Volturno, oppressa da chiusure ad libitum dei governatori con conseguenti promozioni di ufficio. Il premier ha un’ulteriore idea chiara: «L’altra riforma che non si può procrastinare è quella della pubblica amministrazione». Draghi è certamente consapevole che per realizzare questo obiettivo non si può disporre del personale chiuso nel tinello di casa col pretesto del lavoro da remoto. E avrà notato che quando la stampa ha ri-attribuito al neo-ministro Renato Brunetta una dichiarazione un po’ brusca rilasciata nello scorso mese di giugno (“a lavorare”), si è levato un coro di proteste.

Alcuni osservatori hanno notato che il neo presidente non ha affrontato tutti i temi, specie quelli più divisivi. Il che è vero solo in parte: sull’ambiente, le nuove tecnologie, il fisco nelle comunicazioni sono contenuti indirizzi innovativi, che si guardano bene dal mediare con il dibattito da “scappati di casa” che ha tenuto banco negli ultimi anni (decrescita felice, no alle opere pubbliche, flat tax, patrimoniale, ecc.). Quanto al RdC, la sua prospettiva si colloca in una nuova azione di lotta alla povertà, mentre l’accento viene posto sulle politiche attive del lavoro e sugli strumenti idonei (l’assegno di ricollocazione, espressamente indicato nel testo di Draghi) e sul rafforzamento delle iniziative di formazione dei lavoratori occupati e disoccupati.

E quota 100? E la riforma delle pensioni? Calma e gesso. Anche l’Onnipotente il settimo giorno si riposò. Ma quando l’ex presidente della Bce, ora alla guida del Paese, si chiede se la sua generazione, abbia fatto e stia facendo per loro (i giovani, ndr) tutto quello che i nostri nonni e padri fecero per noi, sacrificandosi oltre misura, non può non avere in mente i torti che il sistema pensionistico ha inflitto, infligge ed infliggerà alle nuove generazioni.