Se va bene – e sembra che debba andar bene– ci siamo levati dalle scatole in una botta sola l’avvocato Conte, il ministro Bonafede, il commissario Arcuri e a dio piacendo tutte e cinque le stelle, con il leader comico in testa. Tratteniamo il respiro, incrociamo le dita ma più che altro evitiamo di divinizzarlo se vogliamo capirlo, altrimenti si ricade nella laude del loden di Monti per il quale, senza sua colpa, fu anche abusato lo stucchevole nomignolo di super-Mario, da un giochino elettronico ormai dimenticato.

Meglio evitare anche le divagazioni sul drago, benché nomen-omen: i nomi non arrivano sempre per caso e poi mettiamoci al riparo dall’eterna dannazione italiana di invocare l’uomo della provvidenza. Mario Draghi è un protagonista di peso. Ha un modo di fare impeccabile e forse un po’ rigido, con un sospetto di timidezza, ma con un sorriso più incline al sarcasmo che all’ironia. La sua storia ha due momenti, anzi tre. Nasce keynesiano, dunque favorevole a un’economia di sinistra di manica e spesa larga, dunque aperta al sociale. Poi diventa l’opposto: un campione delle privatizzazioni, uno che frequenta la finanza cinica e dedita al profitto, alle privatizzazioni che smembrano le aziende.

Poi la fase tre, quando diventa governatore della Bce e getta la maschera salvando le nazioni europee nei guai – specialmente la sua che sarebbe la nostra, cosa che irritò moltissimo i tedeschi – con il quantitative easing che ancora pompa miliardi dove servono, secondo la linea dell’ultimo Draghi per il quale i soldi sono fatti per essere spesi, i debiti sono in fondo soltanto numeri astratti e quando occorre si deve usare la pompa e non il contagocce, “costi quel che costi”. Quale miglior credenziale per svolgere il ruolo di regista e amministratore unico del Recovery Fund, cioè del malloppo atteso dall’Europa, che però non arriverà se non si seguono le procedure? Citazione per citazione, «when the going gets tough the tough get going»-, quando in campo servono i duri, i duri entrano in campo.

Ciò significa che l’uomo non è un lucente ed innocente automa come il Cavaliere di Italo Calvino, ma un campione certificato con una storia di momenti e posizioni diverse e persino opposte: quel che serve, quando serve. L’elemento costante è il carattere: orfano da adolescente, trovò famiglia nelle scuole e nelle università: nella romana Sapienza, poi nel Mit di Boston. Poi nelle supreme bische dell’alta finanza senza cuore in cui imparò l’importanza di una faccia da poker perfetta per sedere al tavolo e pensiamo che lì abbia imparato a giocare pesante, non vogliamo dire sporco, ma nemmeno da educanda delle Orsoline, se ancora esistono educande e Orsoline. In Europa lo descrivono come un accentratore che simula un religioso rispetto per la collegialità di cui, secondo Christine Lagarde, non sa che farsene. È uno stratega indifferente alla tattica purché si arrivi al risultato ed è un nerd, cioè un maniaco conoscitore della finanza che non è economia accademica ma il circuito in cui si decide di chi vivrà e chi soccomberà.

Per poterlo apprezzare, va smontato per scoprire che non è soltanto un competente, ma uno che adotta come stile la deferenza, che è il costume di scena per chi è chiamato a governare. Di lui si cita il motto “whatever it takes”, a qualsiasi costo, che non è quello più adatto a un accademico, ma piuttosto ad un comandante decisionista. Ma la cosa più importante per capirlo e valutarlo è il fatto che Draghi pensi e decida in inglese, non solo che parli la lingua. Un conto è parlare un ottimo inglese, un altro è pensare in un idioma che ignora ogni costruzione barocca, imponendo di andare dritti al punto – to cut to the chase – ed è quanto ha imparato al Mit di Boston dove fu spedito da Federico Caffè, con cui si laureò in economia alla Sapienza di Roma.

Federico Caffè misteriosamente sparì e non se ne ebbe più notizia, una sorte misteriosa che somiglia a quella del fisico Majorana e che certo non ha a che fare con la biografia di Draghi. Ma è certo che quest’uomo di 73 anni sia cresciuto in un mondo fatto di severità e di astuzia, di codici per pochi e sia cresciuto a scuola dai gesuiti, con molta America accademica vissuta con il premio Nobel Modigliani. La fase più discutibile e discussa della sua vita di banchiere, quella presso Goldman Sachs, dimostra come l’uomo abbia e le cambi posizioni. Nella Goldman Sachs fece una folgorante carriera e di sicuro non era un tempio di santi. Poi c’è la leggenda nera di quel che accadde sul panfilo Britannia il 2 giugno del 1992 quando sulla nave della casa reale inglese, finanzieri e banchieri riuniti come la Spectre di James Bond avrebbero svenduto l’Italia e le sue industrie in attesa che Giuliano Amato svalutasse la lira.

Per queste vicende Francesco Cossiga gli lanciò una delle sue più velenose invettive rammaricandosi di averlo raccomandato a Berlusconi: «È un vile affarista, un uomo della Goldman Sachs che oggi svenderebbe anche Finmeccanica e l’Eni», disse il picconatore. Si dice anche che Berlusconi, oggi molto favorevole al suo governo che gli potrebbe permettere un ritorno in scena sganciandosi dai soffocanti alleati, sia rimasto deluso e irritato per la sparizione di Draghi, così come gli era successo con Mario Monti da lui scelto come commissario europeo. Ricordiamo queste lontane ombre per avvalorare la tesi e la speranza che Mario Draghi sia oggi l’uomo giusto nel momento giusto al posto giusto. Proprio perché non è un angelo e perché sul ring dei banchieri è stato una specie di Cassius Clay che ha marciato come un rullo compressore, ma con garbo e faccia da poker.

Rispettoso, ma non ossequiente, incrociato i guanti anche con Angela Merkel ed ha vinto la partita con la Bundesbank dopo una resistenza inflessibile attraverso la quale ha dimostrato che quando sceglie un obiettivo è pronto a fare whatever it takes, tutto quel che si deve da fare, un proposito più adatto alla programmazione dello sbarco in Normandia che al cantico delle creature. Se tutti i pezzi dell’incastro andranno al loro posto, la rilettura di quanto è accaduto dall’apertura della crisi ad oggi apparirà lineare e semplice come la trama dell’Odissea: i sopraffattori che avevano occupato Itaca, non seppero riconoscere in tempo Odisseo che era tornato per sterminarli. Con l’aiuto determinante di Matteo Renzi, s’intende.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.