Dopo un non facile confronto tra le forze politiche e le parti sociali si è formato il nuovo Governo. La presidenza Draghi ne assicura il forte ancoraggio europeo e non è poco. Non potrà che avere un alto profilo riformista, per questo, la fase che si apre sarà aspra e non certo “un pranzo di gala”. Questa però è una occasione storica per cambiare in meglio il Paese, e se fosse ancora bloccata dai veti delle diverse corporazioni rischierà di essere forse l’unica per molto tempo a venire. Qualcuno ha paragonato il governo Draghi al governo Ciampi. Il paragone è stimolante per nuove riflessioni e non mi riferisco solo agli obiettivi di lotta alla pandemia, di avvio del Recovery fund, di realizzazione di una seria riforma fiscale con tassazione davvero progressiva che non penalizzi il lavoro.

Mi riferisco soprattutto alla possibilità, forse è un sogno, di poter applicare quanto previsto dal famoso art. 39 della Costituzione, che riporto integralmente. «L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce». Semplice, chiaro, assolutamente attuale e moderno nello stesso tempo.

L’esigenza di misurare la rappresentatività dei sindacati, non solo di quelli dei lavoratori, e la necessità imprescindibile di ridurre la giungla contrattuale (il Cnel ne censisce più di 880) non può che derivare dall’efficacia erga omnes dei contratti sottoscritti dai sindacati maggiormente rappresentativi, così come regolato e previsto dall’art. 39 della Costituzione. Quali sono, a mio parere, le condizioni che rendono maturo e raggiungibile questo obiettivo storico, propedeutico a una vera riforma della contrattazione? Innanzitutto una maggioranza parlamentare ampia. Finora le risicate maggioranze parlamentari sono state sempre bloccate da veti sia interni che esterni. Questo non ha consentito alcuna seria iniziativa riformatrice in questo campo. Ora un’ampia maggioranza parlamentare potrebbe avviare questo progetto.

Inoltre molto nel panorama sindacale è cambiato, se fino a non molto tempo fa alcune Ooss come la Cisl, avevano osteggiato qualsivoglia iniziativa volta alla realizzazione delle condizioni per l’applicazione erga omnes dei contratti collettivi, anche in nome di un più che importante pluralismo sindacale e della libera contrattazione, oggi queste resistenze appaiono essere superabili. D’altra parte, le condizioni oggettive lo richiedono. Il proliferare dei contratti “pirata”, consentita appunto dalla inapplicabilità dell’erga omnes, così come previsto dall’art. 39 della Costituzione e dalla inevitabile applicazione del contratto di “Diritto comune” così come normato dal Codice civile, ha determinato, in molti settori, una concorrenza al ribasso delle norme contrattuali.

Questa situazione di “giungla contrattuale” da più parti stigmatizzata, è una delle maggiori cause di arretratezza del nostro sistema produttivo che invece ha bisogno, nel rispetto della libera contrattazione, di mettere ordine e di dare certezze a tutte le parti sociali, soprattutto, imprenditoriali, impegnate sul mercato in una lecita competizione.
I recenti rinnovi delle principali categorie, come quella dei metalmeccanici, raggiunti in modo unitario dalle Ooss, sono la dimostrazione concreta che ancora esiste una forte capacità delle parti sociali di negoziare e trovare quello che i giuristi chiamano “il giusto equilibrio” tra diversi interessi. Averlo fatto in piena crisi di governo, in assenza del governo, non è una debolezza, anzi è la dimostrazione di una forte e matura autonomia contrattuale.

Con l’accordo del 10 gennaio 2014 e con il “patto della fabbrica” del 9 marzo 2018, Confindustria e Ooss (sottoscritti da larga parte delle Ooss non solo Cgil-Cisl-Uil) hanno ormai costruito un robusto quadro normativo di riferimento. Basterebbe la volontà politica per tradurlo in legge. Per poterlo fare perché non chiedere al Cnel, terza camera legislativa del nostro Stato, di farsene carico? Magari si potrebbe operare partendo proprio da una specifica perimetrazione degli ambiti contrattuali. Sono convinto che le parti sociali rappresentate nel Cnel abbiano le competenze e le capacità per farlo. Manca solo un commitment esplicito sia politico sia delle associazioni datoriali sia di quelle dei lavoratori.

Perimetrare l’ambito di applicazione di un Ccnl è la conditio sine qua non per poter misurare la
rappresentatività dei soggetti stipulanti. Non si tratta di un compito impossibile, basterebbe utilizzare, tra gli altri indici, i codici Ateco utilizzati dall’Istat per monitorare statisticamente l’andamento dell’industria italiana nei vari comparti (per il pubblico impiego la perimetrazione mi pare ancora più semplice). Ovviamente si tratta solo di un indicatore, non l’unico, ma per alcune attività di fatto già ora sovrapponibile all’area contrattuale. Qualora si volesse una perimetrazione più aderente alle specificità oggi esistenti, si tratterebbe solo di specificare l’attività prevalente dell’impresa. I vari Ccnl, quelli fatti bene, definiscono in primis proprio il loro campo di applicazione.

Insomma, non mi pare complesso e impossibile ridurre l’attuale giungla contrattuale di più di 880 Ccnl. Quanto poi alla modalità per misurare la rappresentanza, mi sembra che il lavoro svolto il 10 gennaio 2014, sette anni fa, sia più che pregevole. Ovviamente il parlamento potrebbe inquadrare questo intervento legislativo in una legislazione di sostegno (ammissibilità alle gare pubbliche di appalto, incentivi e decontribuzioni ecc. ecc.) che già ora c’è, anche se di fatto aggirata dal principio di mera applicazione di un qualsivoglia Ccnl.

Qui, è bene ricordare quanto fu infausta l’iniziativa di togliere dallo statuto dei lavoratori la locuzione “sindacati maggiormente rappresentativi” e, ahimè non fu la destra populista e liberista a proporlo. L’applicazione dell’art.39 della Costituzione sarebbe, questo sì, un vero intervento riformatore! Come lo fu, il 23 luglio del 1993, con il Governo Ciampi, l’accordo di riforma della contrattazione, che ancora costituisce un architrave tra le parti sociali. D’altra parte il 27 dicembre 1947 la Costituzione fu promulgata, magari dopo più di 73 anni, anche l’art. 39 potrebbe essere applicato. Abbiamo o no la costituzione più bella del mondo?