Non ho mai tenuto il conto dei comizi che ho svolto in ventotto anni di attività sindacale e in una più corta appendice politica. Mi sentirei di azzardare una cifra accompagnata da tre zeri, ma credo di non aver bisogno di referenze perché per un dirigente/militante della mia generazione arringare i lavoratori (spesso durante uno sciopero) da un palco o anche solo da un camioncino (una volta mi toccò persino di accontentarmi della panchina di un giardino pubblico) faceva parte –soprattutto in certe occasioni come le campagne per i rinnovi contrattuali – delle più frequenti e gratificanti esperienze.

Il comizio, ora, è un genere superato di comunicazione, ammazzato anch’esso dalla televisione, ma soprattutto dalla scomparsa dei grandi leader e delle idee forti che essi condividevano con le masse raccolte intorno a loro. Per l’oratore è una sorta di recita a soggetto, il cui successo non è scontato, ma dipende dall’essere riuscito a realizzare un transfert con chi ascolta, preferibilmente in una piazza all’aperto. Se questo comune sentire non si realizza è meglio chiudere in fretta. Perché ciò sia possibile non bastano gli artifici retorici e lo sciorinare di frasi fatte (gli appelli all’unità, l’attacco ai padroni e ai governi; una volta era di moda prendersela con la polizia e i carabinieri) che strappano un applauso rituale, come gli “amen” che accompagnano la celebrazione della messa. Ma perché l’oratore sia in grado di coinvolgere e sollecitare le passioni dell’uditorio, è indispensabile che questi sentimenti ci siano. E ciò dipende dall’autorevolezza del leader che parla, ma soprattutto dal contesto in cui si svolge la manifestazione ovvero dalla forza dei motivi che hanno indotto migliaia di persone a ritrovarsi lì.

Ero un bambino quando ebbi il primo contatto con un comizio nell’immediato dopoguerra. Lo testimonia una foto in cui cammino a fianco del mio amico Andrea sotto la sorveglianza della signora Ines (la vicina che ci aveva accompagnati in Piazza Maggiore) sventolando una bandierina di carta che da un lato mostrava il tricolore, dall’altro lo stemma del Pci. La mia “prima volta” da protagonista avvenne il 1° maggio del 1965 (dopo pochi mesi da quando avevo iniziato a lavorare alla Fiom di Bologna). Mi mandarono in un comune agricolo della pianura, dove abitavano anche dei miei parenti un po’ alla lontana. Volle accompagnarmi con la sua auto (se la era potuta permettere –usata – poco più che 50enne) mio padre. Non è facile vincere la difficoltà di parlare in pubblico. Mi ero preparato un testo scritto a mano dove affrontavo tutti i temi possibili e immaginabili. Arrivammo nella piazza del paese con un largo anticipo e non trovammo nessuno. Ci sedemmo in un bar ad aspettare.

Verso le 17 gli uffici della locale CdL si aprirono e comparvero all’improvviso il responsabile e la segretaria (io ebbi l’impressione che provenissero ambedue dall’interno). Montarono un palchetto con un microfono, poi mi diedero la parola. Intorno a debita distanza si era radunata qualche decina di persone. Mio padre fu molto contento. Quella fu l’ultima volta che ci capitò di stare assieme, perché morì all’improvviso il 9 giugno di quello stesso anno. Al ritorno ci fermammo a salutare i parenti che non si erano fatti vivi in piazza. Quando ci videro caddero dalle nuvole e giurarono di non aver saputo nulla. In effetti avevano ragione, perché poco dopo, tornando verso la città, mi imbattei in un manifesto che annunciava il comizio in cui avrebbe parlato un certo Cazzoli Emilio. In sostanza, in quel pomeriggio parlai sotto falso nome. Il comizio più importante della mia vita lo feci a Santiago del Cile il 1° maggio del 1982 (era stato eletto da due anni segretario generale della Cgil dell’Emilia Romagna). In quella ricorrenza la Confederazione inviava una delegazione non solo per esprimere solidarietà alle organizzazioni sindacali oppresse da una feroce dittatura. Così facevano anche i partiti politici di sinistra, il Psi in particolare.

Era anche un modo di “proteggere” la manifestazione alternativa a quella del regime, perché Pinochet preferiva non avere grane diplomatiche e comparire sulla stampa internazionale per aver fermato uno straniero (a volte capitava, ma tutto si risolveva in poche ore) durante un’iniziativa della opposizione democratica. Come si direbbe oggi era un “rischio ragionato”; anche se si era sempre in contatto con l’ambasciata, non si trattava comunque di un viaggio turistico. La visita era un’occasione per incontri con i leader sindacali di opposizione (la Coordinadora sindical) che raccoglievano anche – come in una sorta di Cln –rappresentanti dei partiti democratici, dal momento che i sindacati avevano un minimo di agibilità politica, tollerata nei fatti dal regime (anche se i dirigenti che incontrai erano stati più volte, in quegli anni, ospiti delle patrie galere).

La mattina della Festa, la manifestazione si svolse al chiuso in una grande sala, davanti a un migliaio di persone, mentre al di fuori la polizia sparava lacrimogeni. Pronunciai, quando venne il mio turno, un discorso tradotto in lingua spagnola dal mio accompagnatore. Fu trasmesso in diretta dalla radio della Curia ed ebbe una vasta eco. In quel caso riuscì anche il transfert (Los que tienen la fuerza y no la razón) perché sia io che i tanti cileni in sala eravamo consapevoli dell’importanza di quanto stavamo facendo; per dare un senso a quel momento io ero arrivato lì dall’altra parte del mondo e loro lottavano per quella libertà di cui erano stati privati con la violenza. Ma il comizio più sentito dei tanti, avvenne anch’esso in maggio, a Imola, il giorno dopo la strage di Brescia (il 28 maggio 1974).

Quella volta avvertii un comune sentimento condiviso che saliva dalla piazza stipata di lavoratori e cittadini. Sul palco c’erano diversi oratori. Quando venne il mio turno ebbi un’intuizione geniale. Mi ricordai che conservavo nel portafoglio il testo dattiloscritto di quella splendida iscrizione che Piero Calamandrei aveva dettato per il monumento alla Resistenza della città di Cuneo. Dopo un breve discorso, declamai ad alta voce le parole di quel foglio gualcito, con un tono ispirato e una commozione sincera. «Lo avrai, camerata Kesserling, il monumento che pretendi da noi italiani, ma di che pietra si costruirà a deciderlo tocca a noi…». Quando l’eco di quei versi si spense nell’aria (nell’indimenticabile “Ora e sempre Resistenza”), io vidi, in un grande moto di solidarietà, centinaia di uomini e di donne in lacrime.