Un filo d’erba è cresciuto nel deserto. Il 22 marzo scorso è stato effettuato uno sciopero, indetto dai sindacati confederali, che ha interessato «tutto il personale dipendente di Amazon logistica Italia e Amazon transport Italia, cui è applicato il contratto collettivo nazionale di lavoro logistica, trasporto merci e spedizioni, e di tutte le società di forniture di servizi di logistica, movimentazione e distribuzione delle merci che operano per Amazon logistica e Amazon trasporti». Il comunicato sindacale dello sciopero dice così, in un linguaggio tecnico, una cosa dal grande rilievo sociale e politico. Ci parla dell’unificazione nella lotta di due popolazioni lavorative diverse: quella dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato e quella dei driver in condizione di precarietà. Una lotta organizzata contro un nuovo potente padrone che sembrava inafferrabile, inafferrabile come il suo algoritmo.

Pochi giorni dopo, il 26 marzo, la rete Rider per i diritti ha organizzato una mobilitazione nazionale per rivendicare «la necessità di applicare un contratto collettivo nazionale di settore che regolamenti tutta la categoria, riconoscendo a lavoratrici e lavoratori tutti i diritti e piene tutele». Il nuovo mondo del lavoro resuscita parole antiche, ma la sua frontiera è quella nuova. È in gioco il potere e il controllo sull’organizzazione sociale del lavoro nel mondo del lavoro degli algoritmi, nello specifico, e più in generale, in quello della gig economy. La nostra era stata definita come una società postindustriale, per evitare la fatica intellettuale e per eludere i problemi che comporta vedere quanto di industriale è strisciato dentro il nuovo capitalismo. Lo sciopero dei lavoratori di Amazon in Italia, il 22 marzo, andrebbe registrato come una data significativa nella storia del conflitto di lavoro.

Anche in Alabama, i sindacati si battono, ma sono costretti a farlo per essere riconosciuti, non essendoci ancora riusciti. In Italia, dove il riconoscimento c’è, per la prima volta al mondo si effettua uno sciopero nazionale di questi lavoratori. Ne avevano costruito le condizioni le precedenti lotte aziendali e territoriali, guidate da sindacati di base, o generati spontaneamente dal basso, a partire dai settori della logistica. Ne ha favorito la comprensione, l’inchiesta della procura di Milano con la denuncia del procuratore Francesco Greco di un «trattamento di lavoro che nega sistematicamente al lavoratore un complesso di diritti e il futuro», a cui ha fatto seguito la richiesta che quei 60mila ciclofattorini considerati nell’inchiesta dovranno essere assunti con un contratto che garantisca le tutele previdenziali e antinfortunistiche. Lo sciopero contro Amazon è stato deciso classicamente dopo un’interruzione della trattativa aziendale.

Le rivendicazioni sono, da un lato, figlie della storia operaia e, dall’altro, di un altro e diverso tempo. Il ponte è l’intervento e il controllo sui carichi e sui ritmi di lavoro tra la contrattazione dei turni, la riduzione dell’orario, gli aumenti retributivi e la clausola sociale con la continuità occupazionale in caso di cambio dell’appalto o del fornitore, il rispetto delle normative sulla salute e la sicurezza, la stabilizzazione dei tempi determinati. Chi lavora negli hub ha un luogo, un tempo e un modo di lavoro completamente diversi dal driver, ma la sua prestazione lavorativa è decisa da un algoritmo egualmente a sé straniero, estraneo all’esperienza e alla vita di lavoro dell’uno come dell’altro e perciò oggi contestato da una popolazione lavorativa che ha trovato la sua unità contro quel potere contenuto nell’algoritmo del padrone. In Italia, 40mila lavoratori dipendono da Amazon, tra questi, 9.500 sono impiegati nei magazzini a tempo indeterminato. Per avere un’idea di come Amazon ha sfruttato la pandemia in termini di crescita del proprio volume di affari basti pensare che tra loro 2.600 sono stati assunti solo nel 2020.

Eppure, le condizioni di lavoro sono devastanti. Si sa dei rider, ma anche nei magazzini il lavoro è fisicamente spossante, con le quote di produzione a dettare i ritmi di lavoro, sino spesso a negare ai dipendenti il tempo per i loro bisogni fisiologici. Così, il rapido ricambio del personale è l’indice di un logoramento intollerabile. 19mila sono poi i driver dell’azienda di logistica e trasporti dipendenti che non sono assunti direttamente, al fine di poter negare loro diritti, riconoscimenti, retribuzioni adeguate e condizioni di lavoro soltanto umane. Per quanto lontano, il padrone, Jeff Bezos non può nascondere di aver accumulato un patrimonio di 196miliardi di dollari. Lo scorso anno, l’anno della pandemia, secondo QuiFinanzia, Bezos ha guadagnato 8,99 miliardi al mese. Secondo Mediobanca, in Italia, il nostro ha fatturato 1 miliardo di euro, ma ha pagato solo 10,9 milioni di tasse. La testa di Amazon è nel nuovo capitalismo finanziario globale, ma rispetto al salario e alle tasse, il suo corpo risiede nel più sfrenato dei capitalismi, quello della massimizzazione del profitto, costi quel che costi (come si traduce in inglese?). Nella lotta, sono i lavoratori a scoprire un nuovo terreno di conflitto.

Questa volta ad essere cercata è una possibile convergenza tra i lavoratori e i consumatori. L‘appello della Federconsumatori a non comprare da Amazon durante lo sciopero può diventare un’accumulazione di forza e di acquisizione di capacità critica dal basso. Il filo d’erba è esile, ma promettente, molto promettente. Intanto, rivela sin da ora la falsa pista su cui si sono incamminati gli integrati e gli apocalittici nell’esaminare le nuove tecnologie e le nuove scienze applicate, dall’algoritmo all’intelligenza artificiale, applicate al cambiamento dell’organizzazione del lavoro e del lavoro stesso. Lo sciopero all’Amazon smentisce i determinismi che vorrebbero le nuove tecniche o capaci di sottrarre il lavoro allo sfruttamento o, al contrario, capaci attraverso una nuova scomposizione sociale del lavoro di impedirne il conflitto.

Né l’uno né l’altro, ci dice il filo d’erba di un conflitto che potrebbe investire la catena globale del valore, a partire da quel punto dove i lavoratori sono già capaci di farlo. Bisognerebbe non passare sopra alle parole rimesse in campo, il 22 marzo, e ripensarle nel nuovo significato che assumono in questa parte del mondo nel ventunesimo secolo. Nello sciopero dell’Amazon, come nella mobilitazione del 26 marzo dei rider, torna una parola d’ordine novecentesca: l’abolizione del cottimo. Torna una denuncia dell’autonomia operaia, l’abolizione del “contratto bidone”, qui quello tra l’Ugl e l’Assodelivery e ancora, torna la rivendicazione di un vero contratto nazionale con tutte le tutele del lavoro subordinato. Il recupero, la riconquista di un potere, che altre compagini operaie hanno avuto e alle nuove invece è stato negato, è qualcosa che va oltre la pur giusta e sacrosanta rivendicazione di un diritto e della soddisfazione di un bisogno maturo.

È la riconquista di una bandiera da piantare nello spazio e nel tempo del nuovo conflitto di classe. È la messa in campo sul nuovo terreno generato dalla ristrutturazione capitalistica e dell’innovazione di un inedito conflitto di lavoro. Torna in esso come esigenza direttamente vissuta da una nuova compagine lavorativa la coppia conflitto-contratto, una coppia classica su cui si era reinventata l’ultima e inedita stagione di protagonismo degli operai e l’ultimo sindacato vincente, quello dei Consigli negli anni ’70 del secolo scorso. Oggi, tutto è cambiato, radicalmente cambiato, niente e nessuno è come prima. Una gigantesca ristrutturazione dell’economia del lavoro, per non parlare degli effetti della sconfitta del Movimento operaio, ha determinato quel processo di riorganizzazione della produzione che importanti studiosi hanno definito di centralizzazione (del potere dell’impresa) senza più concentrazione (dei lavoratori nei luoghi della produzione).

Nella catena del valore su questa asimmetria di potere è stato costruito il nuovo dominio del profitto, eppure esso non è inevitabile, ci dicono queste nostre giornate di primavera. A quest’abnorme potere concentrato, può opporsi un contropotere diffuso che si può costituire in un singolo evento, come nello sciopero, o in un processo di accumulazione di forze critiche, in un periodo più lungo. È la sabbia nell’ingranaggio, in quell’ingranaggio che genera spoliazione e sfruttamento. Quando accade è festa grande, perché dice che si può.

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Politico e sindacalista italiano è stato Presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008. Segretario del Partito della Rifondazione Comunista è stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature ed eurodeputato per due.