Il presidente degli Stati Uniti ieri l’ha toccata piano: ha minacciato di imporre dazi pesantissimi ai prodotti di Francia, Italia, Austria e Turchia come rappresaglia per la digital tax ai giganti americani del web. Non gradisce che cambi l’attuale situazione di favore fiscale di cui godono questi giganti in Europa. La veemenza di Trump la dice lunga su quali siano gli interessi in campo. I francesi hanno risposto immediatamente per le rime per bocca del ministro dell’Economia, Le Maire, che ha definito inaccettabili le minacce del Presidente Usa. Più vellutato l’approccio del governo italiano, che con la ministra Pisano ha invitato a discutere del tema ma senza creare frizioni. Però è un po’ tardi, le frizioni evidentemente ci sono già, eccome se ci sono. Tanto che il segretario al Commercio americano Robert Lighthizer, divulgando ieri i risultati di un’indagine dalla quale risulta che la Francia tassa in modo improprio e discriminatorio i colossi americani del web, ha avvertito: «È un chiaro segnale sul fatto che gli Stati Uniti agiranno contro i regimi di web tax che discriminano o impongono oneri spropositati sulle società americane», citando fra i possibili bersagli anche Italia, Turchia ed Austria.

Proviamo a guardare la situazione con un po’di attenzione: se chiedessimo a Siri o ad Alexa a quanto ammonta la pressione fiscale in Italia, le assistenti digitali dalla voce suadente non saprebbero cosa rispondere per una ragione molto semplice: loro non pagano le stesse tasse che paghiamo noi. Viviamo nella stessa casa, facciamo suppergiù le stesse cose, eppure a noi lo Stato italiano chiede almeno il 40,2% del reddito annuale, o il 59% a una azienda qualunque; loro, invece, sono tassate al 33%, e su una fetta di fatturato – lo vedremo poco più avanti – marginale rispetto al vero reddito che viene prodotto in Italia. E non c’entrano gli sconti del Black Friday: è così ogni giorno dell’anno. Si tratta di un meccanismo di elusione fiscale che si appoggia su uno degli aspetti più assurdi della malcostruita Unione europea: l’asimmetria fiscale fra Paese membro e Paese membro. Dunque tutto perfettamente legale. Salvo che questa architettura elusiva agisce come un’idrovora nell’economia italiana. Preleva ricchezza, non restituisce alcunché allo Stato, non genera veramente posti di lavoro e non fa crescere niente. Depreda soltanto. A rivelare questa situazione è uno studio realizzato da Mediobanca sui primi 25 gruppi al mondo della Rete e del software. Parliamo dei cosiddetti giganti del web o over-the-top, coi quali tutti se la prendono ma a cui nessuno riesce a fare che un po’ di solletico. Amazon, Alphabet/Google, Alibaba, Microsoft, Facebook, Netflix, Booking, Uber, Expedia e il variegato universo delle loro sorelle che impattano sulla realtà quotidiana di ciascuno di noi, hanno un fatturato globale superiore agli 850 miliardi di euro e dichiarano 110 miliardi di utili. Insieme valgono otto volte l’intero listino della Borsa di Milano e due volte il listino di Francoforte. Di questi 25 gruppi – Apple è esclusa dallo studio, ma si trova nella stessa situazione – 14 sono americani con sede nel paradiso fiscale del Delaware (tranne Microsoft), 7 sono cinesi con sede alle Cayman, due sono giapponesi e due tedeschi.

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Grazie alla scelta mirata di sedi fiscali favorevoli, nonostante operino capillarmente in ogni Paese e tra questi anche in Italia, secondo Mediobanca hanno pagato tasse per una aliquota effettiva del 14,1%, inferiore addirittura a quella nominale media del 22,5%. Negli ultimi 5 anni avrebbero risparmiato – o eluso? O sottratto alle economie nazionali? – 49 miliardi di tasse. La sola Apple, che non è ricompresa nel campione, oltre 25 miliardi. Questo “risparmio” dipende anche da noi. Dei 25 “giganti”, solo 15 hanno aperto una sede qui in Italia e dunque hanno conosciuto le gioie dell’Agenzia delle Entrate che, però, si dimostra ancora una volta disegnata per essere forte coi deboli e debole coi forti. E qui accadono due cose alquanto rilevanti. La prima: dai 14 bilanci depositati (uno non esiste) e analizzati dall’Area studi di Mediobanca, risulta che in Italia denunciano un fatturato complessivo di circa 2,4 miliardi, pari allo 0,3% di quello globale. Su questa ultima cifra le “grandi” pagano tasse per appena 64 milioni, ai quali vanno sommati 39 milioni per sanzioni imputate a Facebook. Alcune cifre: Amazon, che dà lavoro in Italia a metà dei 9840 occupati del settore, ha pagato 6 milioni di euro di tasse. Microsoft 16,5 milioni. Google 4,7. Oracle 3,2. Uber 153mila euro e AliBaba 20mila euro, praticamente solo i bolli.

La seconda, e più drammatica o grottesca: una larghissima parte del fatturato complessivo prodotto in Italia – circa 31 miliardi, più di dieci volte quello denunciato, secondo gli studi dell’Osservatorio eCommerce B2c – viene dichiarato non nel nostro Paese, ma in Stati europei fiscalmente meno esosi come Lussemburgo, Paesi Bassi e Irlanda. È tutto denaro sottratto all’Italia, dove tuttavia viene prodotto. Cos’è la destra, cos’è la sinistra?, cantava Giorgio Gaber. Se la destra è per il libero mercato, allora ha il dovere di rendere più competitivo questo nostro mercato, difendendo le aziende che operano correttamente sul mercato italiano dal dumping delle grandi e costringendo dunque chi produce fatturato in Italia pagare le tasse da noi. Se sinistra significa pretendere uguaglianza di trattamento e redistribuire da chi è più ricco verso chi è più povero, allora la battaglia per far pagare ai giganti del web le tasse sui profitti con una aliquota fiscale che sia almeno pari a quella di un artigiano è una battaglia che non può essere rinviata. Lasciamo perdere la plastica, i furgoni aziendali degli artigiani, le accise sulla benzina di chi lavora nei campi: può la classe politica muoversi, per una volta, unita e non pavida, in comunione di intenti, come i lillipuziani che alla fine, con l’astuzia e anche con la forza, sono riusciti a sconfiggere il potente Gulliver?