La procura di Milano è il Guardiano Supremo della Repubblica teo – mediatico – giudiziaria italiana; e il capo pro tempore dell’Ufficio riceve le stimmate che l’Onnipotente concesse a Francesco Saverio Borrelli come riconoscimento dell’opera di redenzione dai peccati originali della politica. Ed è per questi motivi che la procura meneghina ritiene di essere legittimata ad agire oltre i confini della competenza territoriale e della materia penale. In fondo – come ha scritto Filippo Sgubbi (grande esperto in materia) nel suo saggio Il diritto penale totale.

Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi edito da Il Mulino nel 2019 – questa branca del diritto è divenuta totale ‘«perché ogni spazio della vita individuale e sociale è penetrato dall’intervento punitivo che vi si insinua». Ancora totale «perché anche il tempo della vita individuale e sociale è occupato dall’intervento punitivo che, quando colpisce una persona fisica o giuridica, genera una durata della contaminazione estremamente lunga o addirittura indefinita, prima della risoluzione finale». E, di nuovo, totale «soprattutto perché è invalsa nella collettività e nell’ambiente politico la convinzione che nel diritto penale si possa trovare il rimedio giuridico ad ogni ingiustizia e a ogni male».

Nell’ambito del diritto penale totale anche la fattispecie di reato non è più una condotta illegittima da sanzionare; è diventata una colpa per talune categorie sociali: non nel senso tradizionale di uno specifico fatto – sostiene Sgubbi – commesso da una persona e connotato da colpevolezza, bensì come un male insito nell’uomo e nel suo ruolo nella società. Il reato e la colpa sono uno status che precede la commissione di un fatto ed è legato al ruolo sociale ricoperto o alla tipologia dell’attività che il reo svolge nella vita (in particolare, la politica, ndr). Gli appartenenti alla categoria degli “impuri” sono tenuti a dimostrare – con una vera e propria inversione dell’onere della prova – che in quella particolare circostanza eccezionalmente a loro non può essere imputato nulla. Ma perché limitarsi – si sono chiesti al Palazzo di Giustizia più famoso d’Italia – a “colpirne uno per educarne cento”.

È dovere dei missionari della giustizia risanare le situazioni sociali “impure”, non perché violino qualche legge, ma semplicemente perché non corrispondono più a un’etica tradizionale del lavoro. Perché limitarsi allora a restare nel campo del diritto penale, quando questa materia, se ben usata, può servire a rimuovere le ingiustizie sociali. Ecco allora che la procura di Milano ha voluto occuparsi nei mesi scorsi della ex Ilva di Taranto con una ordinanza che smentiva (in questo caso, per fortuna) quella dei colleghi di Taranto. Ora è il turno delle condizioni di lavoro e delle regole che devono essere applicate ai riders, i “nuovi dannati della terra”. Per raccontare i fatti senza incorrere in errori ci affidiamo alla sintesi che un giurista di vaglia e al di sopra di ogni sospetto, come Pietro Ichino, ha pubblicato sul suo sito.

L’indagine della Procura ha riguardato le modalità di svolgimento dei rapporti di lavoro dei rider in tutta Italia tra il 2016 e l’ottobre del 2020, cioè nel periodo precedente all’entrata in vigore sia del Ccnl stipulato tra Assodelivery e Ugl-Rider, il 16 settembre 2020, sia della nuova disciplina legislativa dettata dal cosiddetto “decreto Di Maio”, applicato dal novembre 2020; i risultati dell’indagine inducono la Procura a qualificare quei rapporti come contratti di collaborazione (non occasionale, come era per lo più qualificata in quel periodo), ma coordinata e continuativa; in applicazione dell’articolo 2 del d.lgs. n. 81/2015 (uno degli otto attuativi del Jobs Act), la Procura ritiene applicabile (per quanto compatibile, ndr) a quei rapporti la disciplina generale del rapporto di lavoro subordinato; conseguentemente, Polizia giudiziaria e Ispettorato del Lavoro hanno emanato, a carico di quattro grandi imprese del settore, un verbale di accertamento di violazione di alcune prescrizioni in materia di sicurezza del lavoro. Tutta quest’operazione è stata oggetto, in data 24 febbraio, di un comunicato stampa della Procura (a firma del dottor Francesco Greco) a cui sono allegati i verbali dell’Ispettorato del Lavoro.

La notizia ha suscitato un notevole scalpore – nonostante che un semplice comunicato, ancorché emesso da una autorevole procura, non abbia effetti legali – come se giustizia fosse fatta, lo sfruttamento sconfitto, le aziende schiaviste costrette ad assumere stabilmente 60mila lavoratori della cosiddetta gig economy. A qualcuno sarà venuto in mente la caccia ai call center che una decina di anni or sono rappresentavano una sorta di “male assoluto” a cui venivano persino dedicati film di denuncia. Salvo poi rincorrere le società quando sono sfollate all’estero chiudendo le postazioni italiane, lasciando a spasso migliaia di dipendenti. Non poteva mancare, a stretto giro di posta, un apprezzamento da parte di Maurizio Landini. «Una bella notizia per la “coesione” del nostro Paese, quella che arriva dall’esito dell’indagine della Procura di Milano», ha affermato il segretario generale della Cgil.

«Le persone che di lavoro fanno i rider devono essere assunte e avere tutte le tutele contrattuali e di sicurezza che derivano dall’applicazione di un vero contratto nazionale di lavoro». «Del resto – ha aggiunto Landini – questi sono i nostri principi costituzionali: l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro e non sullo sfruttamento». «Pertanto – ha concluso il segretario generale della Cgil – chiediamo che si riattivino i tavoli di confronto con le imprese e la loro associazione presso il ministero del Lavoro. Non c’è più tempo da perdere». Bella pretesa, quando il tempo lo hanno perso loro per primi insieme alla ministra/amica Nunzia Catalfo. Il fatto è che un contratto di lavoro esiste già. È appunto quello intervenuto tra Assodelivery e Ugl.

«Quel contratto, in estrema sintesi, qualifica – scrive ancora Ichino – anch’esso i rapporti in questione come di collaborazione continuativa. E utilizza una possibilità offerta dallo stesso articolo 2 del d.lgs. n. 81/2015 per sostituire la disciplina generale del lavoro subordinato con una disciplina speciale costituita da uno standard minimo orario di 10 euro, la stessa normativa di tutela della salute e sicurezza, di cui gli ispettori hanno rilevato la violazione nel periodo precedente, il diritto di controllo sull’algoritmo che governa la piattaforma con cui il lavoro è organizzato, e alcune norme poste a tutela della libertà sindacale. Tutto questo è, ovviamente, discutibilissimo; ma non è materia dell’indagine cui si riferisce il comunicato della Procura milanese».

Cgil, Cisl e Uil sostengono che al settore va applicato il contratto della logistica, ma dimenticano che, secondo il diritto sindacale, l’area contrattuale non è un prius – come nel diritto corporativo – ma una libera scelta delle parti. Non solo; dopo l’amputazione subita per via referendaria, l’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori stabilisce inequivocabilmente che «Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito delle associazioni sindacali, che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva». I sindacati storici sostengono – senza alcuna motivazione – l’illegittimità del contratto del 16 settembre.

Come ribadisce puntualmente Ichino in un suo “editoriale telegrafico”: «Quella del lavoro dei platform workers, come del resto quella dello smart working, è una questione molto complessa di adattamento del diritto del lavoro all’evoluzione tecnologica, che non può essere risolta con un meccanico e indifferenziato assoggettamento del rapporto alla disciplina del vecchio rapporto di lavoro subordinato del secolo scorso: questa estensione, se operata in modo meccanico, equivale a mettere fuori-legge un modello di organizzazione del lavoro reso possibile dalle nuove tecnologie, che invece richiede una disciplina adatta alle sue caratteristiche». Ma Cgil, Cisl e Uil continuano ad urlare: «Fermate il mondo ché vogliamo scendere».