Recentemente la presidente della Commissione, Ursula Von der Leyen, è tornata a ribadire l’importanza di fissare un salario minimo in Europa per garantire ai lavoratori, pur nel rispetto della legislazione nazionale, un riferimento economico certo. L’argomento è da tempo in discussione anche in Italia, dove le semplificazioni non sono mai facili, tanto più se si ha la fortuna di avere una solida impalcatura contrattuale che, se non copre proprio tutta la platea degli occupati, garantisce che non sia il denaro l’unico parametro (o la sola tutela) da tenere in considerazione. È tuttavia inutile negare che ci sia una spinta forte per superare questa visione – per alcuni vetero-sindacale, per me fonte di diritti ottenuti con anni di lotte dal mondo del lavoro – e chiudere la partita con un riferimento economico che può curare qualche sintomo (i bassi salari di tanti giovani sono un fatto), ma rendere endemica la malattia del precariato.

Guardiamo la realtà: in Italia ci sono alcuni milioni di partite Iva che le forze politiche fanno a gara a rappresentare. Ma quante partite Iva sono davvero tali, quante lavoratrici e lavoratori anelano all’ “autonomia” e quanti, invece, sono costretti a fare finta di essere indipendenti mentre lavorano, magari in qualche supermercato, fianco a fianco a colleghi regolarmente inquadrati come subordinati? Per questi lavoratori il salario minimo sarebbe una beffa o, meglio, la cristallizzazione di una posizione ingiusta, la fine della speranza di vedersi riconoscere pari diritti a parità di prestazioni. In queste ore, ahimè , si è aperta un’altra breccia nelle malmesse mura che difendono il diritto del lavoro: è stato infatti sottoscritto, alla chetichella e mentre stava per scadere il termine fissato da un decreto del governo a provvedere alla stipula di un accordo nazionale, un “contratto” tra l’associazione datoriale che rappresenta le multinazionali del delivery e la UGL.

Mentre la Cassazione aveva sentenziato il diritto dei lavoratori ad essere inquadrati nel contratto della “logistica” – con tutte le tutele del caso: maternità, ferie, tredicesima, malattia, licenziamento, ecc. – questo accordo accoglie i desiderata aziendali e, secondo quanto riportano i giornali, inquadra come partite Iva i lavoratori, lasciandoli alla mercé dei datori di lavoro e senza le garanzie appena ricordate, tipiche di un contratto nazionale. Tutto questo a me sembra un maldestro tentativo di avvelenare o comunque indebolire la trattativa che comunque le aziende del settore saranno costrette a fare se non vorranno imbarcarsi in vertenze infinite e, spero, nella giusta considerazione negativa di chi usufruisce dei loro servizi. Resta sul tavolo la mia – come altre, per la verità – proposta di legge sulla rappresentanza e rappresentatività delle sigle sindacali, che sola può evitare il ripetersi di episodi che la dicono lunga su cosa sia diventato in questo Paese il diritto del lavoro.