Colin Crouch, uno dei più noti e influenti sociologi contemporanei, non è quel che si dice un intellettuale organico. Fa parte di quel piccolo gruppo di non allineati che cercano, in modi diversi, di pungolare la sinistra dall’interno. Professore emerito all’Università di Warwick, già docente alla London School of Economics e in tanti altri atenei, con il saggio Postdemocrazia (Laterza, 2003) ha previsto con grande anticipo l’era dei populismi, l’avvento di una democrazia autoritaria e postmoderna, l’erosione definitiva del welfare state. Solo nel 2019 sono usciti in Italia due suoi volumi: il primo, Identità perdute. Globalizzazione e nazionalismo (Laterza, 2019) è un attacco spietato a ogni sovranismo di destra e di sinistra, a ogni tentativo di declinare la sinistra in senso populista. Il secondo, Se il lavoro si fa gig (appena uscito per Il Mulino), è una riflessione sui pericoli della gig economy, il modello economico su cui si basano, per esempio, Uber e Deliveroo. Ma si occupa anche delle conseguenze dell’automazione e degli strumenti possibili – tra cui il reddito di cittadinanza – per rafforzare lo stato sociale.  A marzo dell’anno prossimo uscirà poi nel Regno Unito Post-Democracy After the Crises (Polity), che cercherà di capire come la “postdemocrazia” si sia evoluta negli ultimi vent’anni, soffocando quel che restava della democrazia tradizionale. Nel pensiero di Crouch, acuto osservatore della realtà italiana, coesistono due anime in costante confronto: una positivista e riformista, l’altra critica e dialettica. Comincio la nostra chiacchierata chiedendogli del suo ultimo libro.

Prof. Crouch, la sua analisi della gig economy rimanda a un motivo fondamentale della postdemocrazia: la concessione di un’illusoria libertà dietro cui si nasconde un rafforzamento del controllo…
Un tema molto interessante. Nella società moderna sarebbe impossibile che le autorità ci rifiutassero la democrazia e la libertà. Queste dunque vengono ridefinite.

Questo tema torna anche nell’abstract di Post-Democracy After the Crises in riferimento ai social network, che danno «una falsa impressione di dibattito che in realtà è orchestrato da un piccolo numero di fonti nascoste».
La tecnologia informatica è in sé neutrale, ma osservare come viene usata può insegnarci qualcosa. Da una parte essa ha aiutato numerosi piccoli gruppi e movimenti senza risorse a organizzarsi; ha molto facilitato lo studio e la ricerca. Ma, come vediamo, aiuta anche chi vuole controllarci in modi nascosti.

Come impedire che i social network diventino uno strumento per manipolare l’opinione pubblica?
La prima soluzione è abbastanza semplice, benché ampia. I social network devono configurarsi come editori e essere soggetti alle leggi che regolano le case editrici. In quanto editori devono condividere con i loro autori la responsabilità per ciò che questi scrivono, anche se sono anonimi. Questo è un problema più generale delle cosiddette “platform companies”. Uber afferma di essere una “piattaforma” e non un’azienda di trasporti; Amazon di non essere un’impresa che vende prodotti. In tal modo queste aziende si sottraggono alla legge e alle imposte. La “piattaforma” non è un settore a sé, ma soltanto una nuova espressione di settori già esistenti e soggetti alle leggi apposite.

Nell’era postdemocratica i mass-media, ma anche il cinema e la letteratura veicolano narrazioni ideologiche e semplificate, la politica si affida a messaggi elementari e aggressivamente persuasivi…
Certo, ma questa non è una novità. Ricordiamo il modo in cui, nei secoli, le arti e la cultura sono servite a rafforzare le ideologie e le autorità care alla religione. Sembra strano solo perché – come ha indicato poco fa – oggi ci aspettiamo che il controllo sia un veicolo di libertà. Pensiamo di avere una capacità di resistere più forte che nei secoli passati. Nel mondo della cultura in particolare vediamo molti esempi di resistenza. Essi hanno una funzione importantissima per la salute della democrazia.

Sì, la cultura ha enormi potenzialità liberatrici. Eppure sia le arti che i mass media sembrano aver abbandonato progressivamente la capacità di cogliere le sfumature del pensiero. La crisi del pensiero dialettico e quella della democrazia rappresentativa sono in qualche modo parte di un discorso comune.
Ciò che dice è vero, ma sempre con delle eccezioni. Da noi nel Regno Unito la stampa di massa è una disgrazia, ma la televisione – sia pubblica, sia privata regolata – gioca un ruolo educativo e utile. Forse in Italia e negli Stati Uniti avviene l’opposto. È anche interessante, da noi nel Regno Unito, il ruolo che svolgono diversi calciatori, cantanti di musica popolare e altri rappresentanti della cultura di massa nella campagna contro la nuova xenofobia nel Paese. Dobbiamo sempre cercare le gemme nel fango e non vedere solo il fango, perché le gemme sono preziose.

Un altro fenomeno postdemocratico è l’uso politico degli scandali. Se un politico diventa un brand su cui costruire uno storytelling, allora tutto si gioca sulla promozione o sul discredito della sua figura.
Certo, perché la ricerca di scandali sposta l’attenzione dai dibattiti reali incentrati sulle scelte politiche. C’è un’eccezione: quando gli scandali hanno implicazioni per la vita pubblica, ad esempio se riguardano la corruzione o magari la condotta sessuale e fanno pensare a un’indole generalmente disonesta.

A proposito di storytelling, Adorno diceva che nei regimi autoritari una visione fortemente assolutistica si affianca spesso – curiosamente – a un estremo relativismo.
Questo paradosso si spiega così: in un estremo relativismo non possiamo orientarci in modo autonomo poiché perdiamo tutti i punti di riferimento. Questo processo ci rende dipendenti da chi detiene la possibilità di plasmare la realtà. Vediamo tutto questo nel comportamento di Donald Trump e dei suoi consiglieri, nella loro invenzione di “fatti alternativi” e “fake news”.

In un passaggio di Identità perdute viene mossa una critica all’identity politcs: vi si dice che quando una questione fondamentale come quella dei diritti viene affrontata in termini di identità contrapposte, chi ci guadagna è la destra identitaria – come in effetti sta avvenendo. Quanto è importante per la sinistra tornare a concepire i diritti alla luce dei conflitti di classe?
Che io abbia sbagliato questa formulazione? La classe può essere anche intesa come identità. È importante che capiamo questo, perché non c’è mai una traduzione semplice e razionale tra una realtà economica e un modo di agire. Serve sempre un senso di identità che si incarichi di questa traduzione. Il problema è che le classi della società postindustriali non producono facilmente le identità, perché non sono state coinvolte nelle lotte per i diritti politici. Questo è il paradosso della cittadinanza politica universale. Forse ciò si può spiegare parzialmente con il fatto che i partiti della sinistra hanno trascurato il concetto di classe e hanno preferito lotte intorno al genere, all’etnicità, all’identità sessuale. Ma il genere è anche una chiave per compiere quella traduzione della realtà economica in azione politica nella società postindustriale: la maggioranza delle classi subordinate nelle occupazioni postindustriali sono donne. L’identità femminile si sta configurando come un’ identità di classe fortissima. Il problema per la sinistra è come combinare un appello di questo tipo con l’appello alla classe operaia tradizionale, maschilista. Non è una coincidenza che la destra estrema sia non solo razzista, ma anche ostile al femminismo.

È come se il successo dei partiti xenofobi e l’incapacità della politica di difendere il welfare state affondassero le radici su un comune terreno, su una crescente tendenza nichilistica che impedisce di considerare l’ “umano” – quello che i confuciani chiamano “ren” – come un criterio fondativo del “politico”.
Vedo la situazione in modo un po’ diverso. La tendenza è verso una concezione ristretta dell’ “umano” e della diversità. Nei discorsi degli xenofobi si fa sempre riferimento a uno zoccolo duro a cui spettano i diritti, ad un “vero popolo” che incarna la nazione e la sua etnicità originaria. La politica è costituita sempre da una serie di lotte per l’inclusione o l’esclusione. Benché il neoliberismo ci abbia portato in dote fortissime esclusioni di natura economica, esso ci ha anche aiutato nelle lotte riuscite contro le esclusioni di tipo razziale o di genere. I movimenti populisti dell’estrema destra sono una nuova forma di resistenza contro questi traguardi, sono un’istanza di esclusione.

Il cosiddetto “reddito di cittadinanza” italiano è stato criticato da sinistra per la sua logica autoritaria. Secondo Roberto Ciccarelli, ad esempio, questo provvedimento ha messo in campo politiche di workfare presentate come stato sociale.
Ho problemi con il reddito di cittadinanza in generale, benché sappia che i suoi sostenitori hanno obiettivi importantissimi. Ho paura che un beneficio di questo tipo finisca per non essere compreso dall’opinione pubblica, e venga criticato e distrutto dalla destra. Il caso italiano lo dimostra: per essere accettato dalla destra esso si trasforma – come lei dice – in una politica di workfare. Infatti il reddito di cittadinanza italiano purtroppo non è un reddito di cittadinanza nel senso in cui viene inteso dagli altri suoi sostenitori.

Giulio Laroni

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