È il caso di tornare sulle questioni sollevate qualche giorno fa dall’importante articolo di Fausto Bertinotti. La sinistra politica e sociale non è più abituata a pensare la propria condotta entro le mappe suggerite dalle dinamiche nuove del capitalismo. Eppure, senza questo inserimento delle forme d’agire politiche entro le strutture dell’economia globale, non si comprende nulla della fenomenologia del populismo. Ogni devianza diventa un puro oggetto della stigmatizzazione contro cui si alimenta la censura e non si affina l’analisi. Se il Pd tra gli operai raccoglie appena l’8 % delle preferenze e la Lega va oltre il 27 % si è in presenza di una evidente crisi di rappresentanza sociale. Il dato essenziale riportato nell’articolo, che aiuta a comprendere la genesi del divorzio tra ceti operai e sinistra politica, è questo: nel trentennio 1990-2020 i salari sono aumentati in Germania del 33,7 %, in Francia del 31%, mentre in Italia sono addirittura diminuiti del 2,9%.

Dinanzi a questo scenario di lavoro povero, se la riflessione accentua troppo la componente soggettiva tenderà a rimarcare i tradimenti, le abiure dei ceti politici. Ci sono state senza dubbio delle deviazioni culturali, con rinunce, rimozioni di antichi paradigmi. Però non ci sono da riscontrare in Francia o in Germania dei fulgidi esempi di grande conflitto e di radicalizzazioni delle sinistre politiche. Il relativo miglioramento delle condizioni salariali si è verificato negli anni delle grandi coalizioni, dei governi conservatori e delle suggestioni per le sirene del nuovo centro.
E allora? La differenza nella capacità di tutela del lavoro la fa la persistenza della democrazia organizzata (in Germania) congiunta però al modello di capitalismo esistente (quello renano, ma anche quello francese non hanno reciso la funzione pubblica, come invece è stato raccomandato negli anni 90 dalla dottrina Andreatta-Prodi). In Italia due autentici macigni si sono abbattuti sulla società: la scomparsa della politica organizzata, e la stagnazione pluridecennale. È la fine dell’economia mista, con la scomparsa della grande impresa, e quindi dei luoghi centrali dell’innovazione e anche del conflitto, a costituire il tallone d’Achille del sistema industriale italiano.

Il declino degli investimenti, l’arresto dei margini di competitività, il blocco dell’innovazione tecnologica sono evenienze del tutto naturali per un modello di capitalismo che ruota attorno a piccole unità produttive. Accanto alle micro-aziende a conduzione familiare si rintraccia anche la proliferazione secondo una dimensione del tutto anomala del lavoro autonomo. Il mantenimento di rendimento competitivo del meccanismo economico viene per questo perseguito con la deflazione salariale, con la precarizzazione dei moduli contrattuali, con la contrazione della domanda interna e con l’orientamento della produzione verso il commercio estero, pur in assenza del traino della antica moneta debole e dei miracoli delle svalutazioni competitive. Si determina un cono d’ombra e la micro-impresa, che non dispone degli strumenti adeguati da far valere in termini di capitale, capacità di invenzione di processo e di prodotto per affrontare i giganti dell’economia mondiale, risucchia il lavoro entro le proprie manifestazioni politiche rendendolo così del tutto estraneo alle necessità politico-culturali di pensare lo sviluppo, l’innovazione. Esigenze di protezione affidate soprattutto alle buone amministrazioni locali, momenti di welfare aziendale invocati nei luoghi dove la contrattazione è più forte, rendono possibile quel fenomeno di iscrizione alla Cgil congiunto al voto per la Lega che non ha nulla di paradossale.

La crisi della rappresentanza sociale è determinata dal restringimento delle basi produttivo-competitive del capitale. E come fenomeno di reazione questa stagnazione porta al populismo che predica un popolo omogeneo (etno-regionalismo, welfare aziendale) da proteggere contro la rapacità del grande capitale, della finanza speculativa. Proprio il populismo, con le sue istanze di micro-tutela selettiva, chiude le opportunità di decidere politiche per la crescita. Al populismo dei ceti parzialmente garantiti che votano per la Lega (flat tax, quota 100) si aggiunge il populismo dei ceti esclusi che si orientano per il M5s, il quale lancia misure di reddito per il contrasto verso le povertà con ottiche redistributive che è arduo coprire nel tempo in presenza di un livello di occupazione fermo ad appena il 58 per cento della popolazione attiva. Il protezionismo selettivo della Lega e il populismo redistributivo del M5s sono due facce dello stesso problema: la debolezza del modello economico italiano che non permette di impostare anche il vero tema di una sinistra sociale, cioè ridurre il tempo di lavoro per cogliere anche le opportunità che si profilano in condizioni di innovazione tecnologica e non subire solo le incertezze della flessibilità, delle ristrutturazioni su base informatica.

Il momento Draghi avrebbe dovuto assicurare l’opportunità di una correzione dei nodi strutturali che conducono alla marginalizzazione del modello economico e disegnare, come si sta verificando, le rotte della crescita. Nella fase della tregua, richiesta per cogliere tutti i margini necessari per incidere sul nodo trentennale della stagnazione, la sinistra avrebbe dovuto riorganizzarsi, ripensare la strategia alla luce di una consapevolezza critica della congiuntura. E invece prevale una lettura del governo come una mera parentesi tecnica. Nessun congresso vero, con una solida elaborazione politico-programmatica. Solo qualche tweet. Che fine ha fatto la conferenza operaia annunciata da Zingaretti nel 2019? Non se ne è fatto più niente, è uscita dall’agenda. Così anche il momento Draghi viene sterilizzato e la rinuncia alla rappresentanza politica del lavoro si accompagna ai rischi della cronicizzazione dei populismi della decrescita.