L’uomo della necessità, come lo ha chiamato Carlo Bonomi, è stato accolto trionfalmente all’assemblea della Confindustria. In effetti è proprio la condizione di necessità estrema ad aver richiesto la formazione di un governo senza formula politica e però fortemente politico come quello guidato da Draghi. Se dell’esperienza in corso si coglie solo il ruolo di comando conferito dal Quirinale ad una personalità prestigiosa collocata al di fuori del chiacchiericcio dei post-partiti alla ricerca di un Conte Ter si afferra un unico tratto della vicenda lasciando cadere l’altro che sembra parimenti essenziale.

Alla Confindustria la leadership di Draghi piace perché nel suo piglio decisionista e nel suo andamento pragmatico rivela il vantaggio del commissariamento della politica e quindi il compimento di un sogno antico che vorrebbe la competenza riconosciuta al posto direttivo senza più i rumori di fondo provenienti dalla cieca battaglia politica. Questo inno al coinvolgimento salvifico dei migliori però è solo l’involucro superficiale e in tal senso insidioso della stagione in corso. Lasciarsi sedurre da esso senza scavare più in profondità significa coltivare l’illusione che l’impresa possa recuperare la competitività e il ruolo strategico perduto soltanto dando in appalto la funzione di governo a una personalità di spiccato rilievo internazionale lasciando sguarnito lo spazio pubblico riservato alla mediazione dei partiti.

L’ovazione della Confindustria diventa essa stessa una parte del problema nella misura in cui il padronato ricicla il suo convincimento che solo un qualche podestà forestiero è in grado di pensare agli interessi di lungo periodo del meccanismo produttivo da molti lustri inceppato senza il tempo perduto nei riti della politica percepita come una deleteria pratica che confonde, devia. Il limite del discorso di Bonomi è di raccogliere la funzione di Draghi come quella di un Monti che può finalmente riuscire nella velleità di supplenza e di non scorgere invece che l’azione di governo costituisce un passaggio essenziale per la ricostruzione della politica, non per la sua definitiva sepoltura.
Al momento il ciclone Draghi si abbatte sulla politica in crisi con una forza dissolutiva che impone agli attori di assumere in fretta gli accorgimenti di una rivoluzione passiva.

L’analisi errata di Zingaretti e Bettini ha indotto il segretario alla precipitosa fuga dopo il fallimento di Conte costringendo il Pd ad un primo e ancora timido aggiornamento dei paradigmi. Il M5S ha rotto il cordone ombelicale con una micro-azienda proprietaria e ha allentato anche il legame linguistico e simbolico con le esuberanze di un comico. Il viandante Salvini che se ne va in giro a distribuire santini è sfidato apertamente dalla squadra di governo leghista e dai presidenti di regione che non gli concedono più neppure la licenza di straparlare. Commette un serio errore di prospettiva la Confindustria quando invita il sindacato a stipulare un patto in un quadro culturale che trascura la dimensione politica la quale invece è da ricostruire nell’autonomia che le è indispensabile. Il ritardo del sindacato, che non possiede le risorse culturali e la leadership per pensare in termini strategici la funzione di classe, smonta la pretesa di Bonomi di fare a meno della politica. Nella carenza delle culture politiche minacciosa può crescere solo la forza obiettiva di un ribellismo che connette un certo sindacalismo, la Lega di Salvini, le aree del M5s di Di Battista, Freccero, Travaglio, le categorie biopolitiche e complottiste di Cacciari, Agamben, Vattimo, Fusaro.

La Confindustria ha compreso che Draghi non può interrompere il lavoro di governo accettando il buen retiro che gli è stato offerto come nuovo inquilino del Colle. Chi suggerisce questa strada dell’immediato trasloco che da Palazzo Chigi lo accasa al Quirinale trascura la delicatezza delle questioni istituzionali evocando una cesura procedurale-simbolica-formale che adotta la prospettiva di una seconda repubblica che al momento pare costosa e irrealistica. La partita europea così delicata e sempre più aperta circa il destino del patto di stabilità, e soprattutto la spinosa questione dell’ampiezza delle competenze riconosciute al sistema bancario nella copertura del debito, richiedono il contributo di Draghi nella pienezza delle funzioni di guida del governo. Gli scenari per il dopo 2023 rientrano nel campo del preferibile e in queste cose la previsione diventa sempre iniziativa politica per incidere sulle molteplici variabili.

La prospettiva di una riedizione del Monti artefice della “salita” alla politica con un suo partito personale non pare quella che scalda maggiormente Draghi che pure non vuole dilapidare il suo “patto per la crescita”. Anche il destino di subire lo stesso trattamento che il Pds e il Pp riservarono al governatore della Banca d’Italia portato anche allora dalla “necessità” a Palazzo Chigi andrebbe scongiurato perché proprio l’intempestiva rinuncia alla leadership di Ciampi condusse alla sconfitta della politica nel 1994. Per la sua cultura politica, le sue visioni della crescita e la sua storia Draghi parrebbe il naturale punto di equilibrio di una plurale area di centro sinistra e liberaldemocratica che ricerca una esplicita investitura popolare, non sacrale e impolitica come sogna chi intenderebbe escluderlo dal fastidio del conteggio del voto.