Capitali, libertà e diritto al lavoro
Delocalizzazioni, perché non possono essere i governi a regolarle: il caso Orlando e la polemica di Bonomi
Carlo Bonomi, Presidente di Confindustria, ha lanciato il sasso nello stagno durante il suo intervento al meeting di Comunione e Liberazione. Ha portato all’attenzione generale il fatto che, senza molto clamore, il Ministero del Lavoro, per iniziativa del ministro Pd Orlando e della sottosegretaria 5 Stelle Todde, stia mettendo a punto un provvedimento volto a prevedere un percorso obbligato per chi intenda trasferire all’estero la produzione, e sanzioni per chi non lo rispettasse.
L’iniziativa è partita dopo lo scandalo dei licenziamenti collettivi di Gianetti Ruote in Lombardia e di Gkn in Toscana, scandalo reso ancora più grave dalla circostanza che le aziende interessate producevano profitti, con la conseguenza che le delocalizzazioni sarebbero solo rivolte ad incrementare questi ultimi, e che in un caso la comunicazione ai lavoratori sarebbe avvenuta addirittura a mezzo WhatsApp. Alle critiche di Bonomi ha subito risposto il segretario Pd Letta, affermando che la soluzione in corso di costruzione sarebbe equilibrata e che una soluzione che “sanzioni gli abusi è un sistema che gli investimenti li attira”. Nessuna reazione all’intervento di Bonomi vi è stata da parte del Movimento 5Stelle, nonostante oggetto di critica sia stata l’iniziativa di una sua esponente. Dubbi sulla opportunità di una disciplina punitiva per le delocalizzazioni sono stati avanzati da Italia Viva e da Forza Italia. Così, Marattin, presidente della Commissione Finanze della Camera, ha osservato che “per evitare le delocalizzazioni occorre migliorare le condizioni di competitività dei territori”.
Indubbiamente, l’onda di sdegno che è stata suscitata dalla notizia di un licenziamento collettivo comunicato via WhatsApp, e per giunta da parte di una impresa in buone condizioni economiche, ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica il tema delle delocalizzazioni, reso oggi ancora più attuale da una generale perdita di posti di lavoro conseguente al crollo dell’economia determinato dalla pandemia. Più che comprensibile, dunque, che ci si interroghi su quali siano gli strumenti cui ricorrere per evitare o attenuare l’impatto delle delocalizzazioni. Del resto, anche in un paese ad economia largamente di mercato, come sono gli Stati Uniti, la questione si è posta con grande evidenza portando l’amministrazione Trump alla introduzione di dazi per la importazione di merci a produzione delocalizzata, in modo da favorire il “reshoring” e, cioè, il rimpatrio delle aziende.
Tuttavia, proprio la circostanza che il tema delle delocalizzazioni riguardi tutti i paesi più sviluppati, a cominciare dagli Stati Uniti, induce ad una prima considerazione: è la globalizzazione, bellezza! Non si può, da un lato, pretendere che le merci siano libere di circolare e, dall’altro, che non lo siano i capitali. La conseguenza è che questi ultimi, la cui circolazione è più agevole e rapida delle merci, finanziano la produzione laddove è più conveniente, ed in questo si sostanziano le delocalizzazioni. Si aggiunga che le delocalizzazioni si traducono, spesso, in un maggior benessere dei paesi che le accolgono, i quali spesso si trovano in una condizione di estrema povertà. Del resto, con riguardo a questi paesi non si usa dire “aiutiamoli a casa loro”? È evidente che ogni delocalizzazione, vista nell’ottica del paese di nuovo insediamento, significa “investimento estero”, che è il risultato agognato da ogni azione politica, anche italiana.
L’insieme di queste considerazioni porta, allora, a nutrire seri dubbi sulla utilità di una legislazione nazionale sulle delocalizzazioni. Gli interessi in gioco sono di tale portata da poter essere efficacemente regolamentati solo in una sede quale l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). È noto che questa organizzazione impone, agli stati che intendono aderire, l’adozione, nella propria legislazione, di una serie di misure che rendano il mercato del nuovo aderente compatibile con quello degli stati già presenti. Tipico esempio è la legislazione sulla proprietà intellettuale, che deve essere riconosciuta e tutelata come condizione essenziale per poter far parte dell’organizzazione. È utile, anche, osservare che i vantaggi derivanti dal poter partecipare al mercato mondiale hanno indotto pure un paese come la Cina a piegarsi e ad introdurre nella propria legislazione gli istituti indispensabili per poter aderire. Si è trattato di veri e propri stravolgimenti dell’ordinamento della Repubblica Popolare Cinese, che ha dovuto acquisire norme maturate nell’alveo di economie di tipo capitalistico. Peraltro, lo straordinario sviluppo economico della Cina, registrato negli ultimi anni, è appunto partito con la adesione di quel paese al WTO.
La vicenda della adesione della Cina indica inequivocabilmente, dunque, da un lato che uno dei compiti del WTO è quello di creare condizioni di mercato compatibili tra tutti i paesi aderenti e, dall’altro, che il suo potere di indirizzo è stato tale da condizionare incisivamente anche un colosso come la Cina. Queste considerazioni inducono a ritenere che sia quella la sede appropriata per conseguire una disciplina globale delle delocalizzazioni, che dia risposta alla esigenza che i lavoratori non siano considerati come mera merce, che può essere dismessa in qualsiasi momento, senza alcun rispetto per la loro dignità e per le loro esigenze umane.
Il tema delle delocalizzazioni selvagge riguarda non solo, come si è detto, tutti i paesi sviluppati, ma anche quelli sottosviluppati, nei quali gli insediamenti produttivi da delocalizzazione possono avere i tratti di una economia da rapina. Ecco perché una iniziativa volta ad incidere sulla Organizzazione Mondiale del Commercio potrebbe aggregare le forze necessarie per conseguire l’obiettivo. Proprio le considerazioni che spingono a dare una soluzione di livello globale al tema inducono a guardare con scetticismo alle soluzioni meramente nazionali, come quella in corso di elaborazione al Ministero del Lavoro. Per quello che concerne l’Italia vi è un argomento contrario in più. Il Paese è indietro, rispetto a tutti gli altri paesi più avanzati, e rispetto anche a molti paesi in via disviluppo, quanto a competitività del sistema. Pubblica Amministrazione inefficiente, Giustizia inaffidabile rispetto sia ai tempi e sia agli esiti, apparato normativo inestricabile e bizantino sono tutti fattori che allontanano le imprese dall’Italia.
Non è un caso, del resto, che i finanziamenti europei siano appunto condizionati alla correzione delle storture indicate. Nessuna forza politica ha mai espresso dubbi sulla effettiva esistenza di tali storture. In un quadro sconfortante, quale quello oggi esistente, aggiungere una complessa procedura di uscita, accompagnata da sanzioni, significa solo continuare a rendere meno attrattivo il paese. Una disciplina delle delocalizzazioni, pur con i limiti che può avere una disciplina nazionale rispetto ad una questione di carattere globale, potrà essere introdotta solo nel momento in cui l’Italia sarà diventata un paese accogliente per le imprese.
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