L’Unione europea potrebbe ottenere ulteriori 50 miliardi di euro l’anno di tasse dalle multinazionali, se nei prossimi mesi l’Ocse riuscisse a trovare un accordo sulla tassazione minima globale del 15% per le società, come già proposto dagli Stati Uniti e, soprattutto, come hanno concordato sabato scorso, 5 giugno, a Londra, i paesi del G7. Per ora la base minima concordata da Usa, Canada, Giappone, Regno Unito, Germania, Francia e Italia è fissata al 15%, ma nei prossimi summit internazionali quella soglia potrebbe salire.

L’Unione europea gongola perché, con un’aliquota minima del 21%, raccoglierebbe circa 100 miliardi di euro nel 2021. Le entrate triplicherebbero, raggiungendo i 170 miliardi di euro, se l’aliquota fiscale minima globale concordata arrivasse al 25%. I calcoli sono stati effettuati da uno studio dell’Osservatorio fiscale europeo, un nuovo organismo indipendente, con sede alla Paris School of Economics, varato martedì 1° giugno dalla Commissione europea. Tra le altre cose, il rapporto del neonato Osservatorio fiscale europeo avverte che l’Ue potrebbe ottenere più denaro dall’aumento delle tasse sulle proprie società che dalla tassazione di quelle straniere.

Per ora i ministri delle finanze dei paesi del G7 hanno raggiunto un accordo a sostegno della creazione di un’aliquota minima globale di imposta sulle società di almeno il 15%. Potrebbe essere questa la base di un accordo mondiale esteso anche alla Cina. Ma il direttore dell’Osservatorio Gabriel Zucman ritiene ancora troppo bassa l’imposta del 15% sui profitti delle grandi multinazionali e propone di definire almeno un’aliquota del 25% per “rompere la spirale della concorrenza fiscale” e “riconciliare” i popoli con la globalizzazione. In attesa della riunione del G20 in programma a Venezia dall’8 all’11 luglio che dovrebbe allargare la base degli stati aderenti all’accordo di Londra, sembra ormai vincente la linea che l’amministrazione Biden ha promosso fin dai primi giorni dell’insediamento.

Per dirla con il segretario al Tesoro degli Stati Uniti Janet Yellen, l’accordo del G7 vuole scrivere la parola fine sulla “trentennale corsa al ribasso delle aliquote delle imposte sulle società” che ha scatenato la concorrenza tra i paesi per attirare le multinazionali. Con questo accordo, viceversa, le principali economie mirano a scoraggiare le multinazionali dal trasferire i profitti – e le entrate fiscali – verso paesi a bassa tassazione, indipendentemente da dove vengono effettuate le loro vendite. Sempre più spesso finora, i proventi da fonti immateriali come brevetti di farmaci, software e royalties sulla proprietà intellettuale sono migrati verso i cosiddetti paradisi fiscali: in tal modo le le aziende hanno cercato di evitare di pagare tasse più elevate nei loro paesi di origine tradizionali.

L’accordo del G7 si inserisce in un processo più ampio che vede l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, impegnata da anni a coordinare i negoziati fiscali tra 140 paesi sulle regole per tassare i servizi digitali transfrontalieri e per frenare l’erosione della base imponibile, compresa un’imposta minima globale sulle società. I paesi dell’Ocse e del G20 mirano a raggiungere un consenso su entrambe le misure entro la metà dell’anno. L’obiettivo della minimum tax globale sembra tecnicamente più semplice e meno controversa sul piano politico. Inoltre, se verrà raggiunto un ampio consenso, sarà estremamente difficile l’opposizione per quei paesi, come per esempio l’Irlanda, che hanno visto crescere la propria economia proprio grazie all’afflusso di miliardi di dollari di investimenti da parte delle multinazionali.

Secondo l’Ocse la minimum tax rappresenterà la maggior parte dei 50-80 miliardi di dollari di tasse extra che le aziende finiranno per pagare a livello globale in base agli accordi che si stanno consolidando. Ma come funzionerà? In primo luogo, l’aliquota fiscale minima globale si applicherebbe ai profitti esteri. I governi potrebbero pure continuare a fissare una aliquota d’imposta locale più bassa sulle società che desiderano. Ma se le aziende pagheranno aliquote più basse in un determinato paese, i loro governi nazionali potrebbero “ricaricare” le loro tasse all’aliquota minima, eliminando il vantaggio di spostare i profitti.

Una conclusione confermata dallo studio dell’Osservatorio fiscale europeo, per il quale non è necessario che tutti i Paesi siano d’accordo sulla imposizione di una aliquota più alta perché questa sia efficace. “Se un numero sufficiente di Paesi applicasse una tassa minima (alle imprese che operano all’estero), i paradisi fiscali non potrebbero più attrarre attività o utili offrendo aliquote basse”, spiega il direttore Zucman. “Sarebbero quindi incoraggiati ad aumentare le proprie aliquote fiscali, poiché non farlo significherebbe lasciare le entrate fiscali alla riscossione dei Paesi di origine delle imprese”.

Fino al mese scorso l’Ocse sosteneva che il disegno di base dell’imposta minima fosse oramai condiviso dai diversi paesi e che la questione aperta rimanesse ancora la soglia dell’aliquota. Tutto vero, salvo il fatto che l’accordo del G7 di sabato – salutato da molti, compreso il premier italiano Mario Draghi, come “un passo storico” – ha ormai fissato al 15% la base minima creando le condizioni e lo slancio per andare oltre. Bisognerà comunque aspettare il summit del G20 di Venezia per verificare la reale portata di questo passo storico.

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