L’emergenza pandemica sembra aver stravolto le abitudini della politica economica americana. E Joe Biden appare sempre più l’erede diretto di Franklin Delano Roosevelt e del suo poderoso piano “keynesiano”. A metà marzo il presidente degli Stati Uniti ha firmato il Rescue Act da 1,9 trilioni di dollari. Che potrebbe essere seguito da un pacchetto di 3 trilioni di dollari di investimenti per lavoro, energia pulita e infrastrutture. Piani di spesa “epici” secondo Davide Brooks del New York Times. In primo luogo, Biden ha invertito la tendenza dei governi americani di contenere il debito pubblico in tempi di pace per evitare l’esplosione dell’inflazione e il peso schiacciante dei conti pubblici sull’economia. In secondo luogo, il presidente ha assegnato alle politiche espansive del governo obiettivi redistributivi per aiutare gli emarginati e favorire la coesione sociale.

Tutto ciò appare rivoluzionario in un modello politico-economico tradizionalmente basato su tasse relativamente basse (rispetto ai parametri europei) e basse assicurazioni sociali. Basti pensare che, per le prestazioni sociali, l’America spende oggi il 19% del Pil, mentre la Francia è al 31%. D’altra parte, le differenze prima di tutto culturali tra gli Usa e i paesi dell’Europa continentale sono enormi. «Siamo un paese nato da una rivoluzione contro il potere centralizzato. Abbiamo un alto sospetto dello Stato», ricorda David Brooks. Inoltre, le convinzioni religiose degli immigrati che hanno fondato l’America si basano sull’idea centrale che il duro lavoro porta al successo. Da qui, spiega Brooks, deriva «un’etica che investe molto sulla crescita futura e meno sulla sicurezza sociale». Infine, la grande diversità razziale ed etnica degli Usa non aiuta la solidarietà sociale «perché le persone sostengono la spesa sociale per i poveri soprattutto quando i poveri sono membri della loro stessa razza o gruppo etnico».

Nel frattempo, però, la crisi finanziaria del 2008 e quella pandemica del 2020 hanno visto aumentare le disuguaglianze sociali ed economiche. E nel partito democratico americano è cresciuta una nuova generazione di politici che, sostenuta da economisti progressisti come Heather Boushey e Jared Bernstein, chiede più intervento dello stato in economia e politiche di redistribuzione del reddito. Come spiega nel suo blog J.W. Mason, professore di economia al John Jay College di New York, convinto sostenitore di una rottura decisiva con il cosiddetto “neoliberismo”, «sia l’amministrazione Clinton che quella Obama sono entrate in carica con ambiziosi piani di spesa, per poi abbandonarli o ridurli drasticamente, e invece abbracciare una politica di austerità e riduzione del deficit». Viceversa, continua Mason, «il fatto che l’amministrazione Biden non solo sia riuscita a spingere verso un aumento della spesa pubblica vicino al 10 per cento del Pil, ma lo abbia fatto senza alcuna promessa di riduzione del deficit a lungo termine, suggerisce un cambiamento fondamentale».

Mason contesta i pilastri di quella che chiama “ortodossia dominante”: il fatto che esista un livello minimo di disoccupazione coerente con la stabilità dei prezzi; la necessità di assicurare un rapporto debito/pil stabile o in calo in quanto ampi deficit fiscali sarebbero molto costosi; il timore che le misure sociali possano ridurre l’incentivo a lavorare. Secondo Mason, viceversa, il debito pubblico non ha importanza, gli incentivi al lavoro non contano, la spesa diretta e visibile è migliore della spesa indiretta o della spesa finalizzata a modificare gli incentivi, il settore pubblico ha capacità che mancano al settore privato per le quali risulta preferibile. Ma le voci critiche verso questa revanche della sinistra accademica e politica si levano proprio dall’interno del mondo liberal. «Davvero? Anche le leggi di gravità sono state sospese?», ironizza David Brooks.

Pure Steven Pearistein, storico columnist del Washington Post, nel suo ultimo editoriale avverte con sarcasmo: «A sentire gli economisti di sinistra, gli attivisti progressisti e i politici democratici, non c’è più alcun limite alla quantità di denaro che il governo può prendere in prestito, spendere e stampare. In questa nuova economia, non dobbiamo più preoccuparci che i prezzi delle azioni possano salire così in alto, o che le aziende si assumano una montagna di debiti con la conseguenza di provocare una crisi finanziaria». Anche in America, forse, qualcuno si è convinto di abolire la povertà. Secondo costoro, «qualunque beneficio sia richiesto dalla classe media sempre in lotta può essere finanziato aumentando le tasse sulle grandi società e sui ricchi immeritevoli», accusa Pearistein. «Siamo entrati in un mondo magico in cui il prestito è gratuito, la spesa si ripaga da sola, le azioni aumentano e il dollaro non scende mai».

Accanto a queste perplessità si aggiunge la paura per l’aumento dell’inflazione. Tra i primi a paventare questo rischio c’è Lawrence H. Summers. L’ex segretario del Tesoro degli Stati Uniti ai tempi di Bill Clinton sostiene che la politica fiscale di Biden – definita come la “meno responsabile” degli ultimi 40 anni – ha una probabilità su tre di scatenare l’inflazione. La Fed, che ha proprio il compito di usare le politiche monetarie per contenere l’inflazione, potrebbe così aumentare i tassi d’interesse. E l’economia potrebbe scivolare verso la recessione. Sulla stessa linea si è attestato Olivier J. Blanchard, ex capo economista del Fondo monetario internazionale. Preoccupazioni respinte, però, da Richard H. Clarida, vice presidente della banca centrale, e Charles Evans, presidente della Federal Reserve Bank di Chicago, che danno poco credito a questi timori. D’altra parte, ammette Brooks, «gli Stati Uniti hanno molte più disuguaglianze rispetto al passato. La vita è molto più insicura per chi è al di sotto della scala del reddito. E c’è molta povertà infantile». Ecco perché Biden va avanti come un treno.

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