Lo so: tempi duri per chi ha non dico difeso l’innominabile cattivissimo Trump, ma ha almeno cercato di decifrarlo per trovarne e mostrarne la logica. E allora la cronaca suggerisce di tener d’occhio Joe Biden che, a differenza di Trump, parla poco ma già spara parecchio. Se ricordate, il deprecato Trump non si avventurò in alcuna operazione militare. Solo una volta e proprio mentre aveva come ospite nel suo resort di Mar A Lago in Florida il presidente cinese Xi Jinping, concesse alla sua marina militare uno sfoggio pirotecnico che non causò nemmeno un morto: fece lanciare una salva di missili su un campo d’aviazione abbandonato in Siria. Xi Jinping, con aria sorniona, osservò lo spettacolo e disse: bei missili, ma i nostri sono migliori.

Trump ha riarmato le forze armate Usa come non lo erano mai state, praticando la curiosa tattica imperialista di riportare a casa le truppe americane sparse per il mondo. Ora Biden ha estratto la sua Colt dalla fondina e ha subito sparato sui jihadisti sciiti filoiraniani, come rappresaglia per l’uccisione di alcuni americani di alcuni giorni fa. Ha detto che “America is back” e che la ricreazione trumpiana dell’isolazionismo – “America First “– è finita. Come era facile prevedere sul campo internazionale siamo alla prosecuzione della linea già adottata dai democratici Clinton e Obama – Biden ha subito mostrato il muso duro alla Russia. Sanzioni per l’affare Navalny, il giovane capo dell’opposizione a Putin prima avvelenato e poi sbattuto in galera.

Biden ha ripreso l’antico discorso dell’America inclusiva: gli Stati Uniti proteggono. Ed esportano democrazia e sanzionano o eliminano i nemici della democrazia. È la politica che emerse vincitrice ai tempi della Seconda guerra mondiale, quando si vide che l’”appeasement”, la politica della pace ad ogni costo seguita dal primo ministro inglese Chamberlain e quello francese Daladier che si piegarono ad Hitler nei trattati di Monaco del 1938, porta soltanto a disonore e guerra. È stata la posizione dei democratici che, curiosamente, hanno sempre aperto le guerre che poi i repubblicani hanno chiuso. L’operazione armata contro gli sciiti filo-iraniani è ovviamente un monito a pistola fumante proprio a Teheran, con cui Biden ha ripreso la trattativa interrotta da Trump, ma a mano visibilmente armata. Vale la pena notare che nel frattempo Bibi Netanyahu, il primo ministro israeliano, non ha neanche telefonato al nuovo presidente, irritato per un cambio di politica in Medio Oriente dove i Paesi sunniti sono ormai alleati di Israele contro la super-potenza sciita accusata di costruire l’atomica con cui liquidare Israele.

Biden ha fatto il muso durissimo anche con la Cina. In Cina Trump ha impegnato una grande flotta che fronteggia quella non meno moderna e potente della Repubblica Popolare Cinese, avendo però al suo fianco Australia, Giappone e Vietnam, proprio il Vietnam comunista contro cui l’America sporcò di sangue inutile il proprio onore mezzo secolo fa. La Cina violando gli accordi sottoscritti nel 1984 con il Regno Unito davanti all’Onu, ha sottomesso la città semi-libera di Hong Kong (due sistemi, un solo Paese) approfittando del caos seguito alla pandemia peraltro nata in Cina. Ha fatto un colpaccio come quelli con cui Hitler si mangiava l’Austria a colazione e la Cecoslovacchia per cena. La prossima merenda per la Cina è Taiwan che formalmente è territorio nazionale cinese, da cui però fu separata dai giapponesi negli anni Trenta e da allora diventata una nazione indipendente, oggi con un regime iper-democratico, ecologista e filoccidentale, ma armata fino ai denti.

Quella è una partita a scacchi di cui noi europei fingiamo di non accorgerci, per miopia. Tuttavia, il Presidente francese Emmanuel Macron ha inviato alcune navi da guerra nel Mare Cinese del Sud (come aveva già fatto fronteggiando nel Mediterraneo la Turchia al fianco della Grecia) e altrettanto ha fatto il Regno Unito di Boris Johnson spedendo la fantastica (per tecnologia) portaerei “Queen Elizabeth”. Biden ha detto ai cinesi che va bene ricontrattare le questioni commerciali, ma che non pensino che l’uscita di scena di Trump significhi un ammorbidimento. Anzi, ha detto: io sono come il mio antenato (alla Casa Bianca) Theodor Roosevelt, zio del più noto Franklin Delano Roosevelt, il cui motto era: «Parla piano, ma impugnando un nodoso bastone».

Vorrei aggiungere – del tutto off the-topic e solo per il perverso piacere di provocare l’irritazione degli anti-trumpiani ortodossi – che se oggi noi abbiamo a disposizione e ci contendiamo con rabbia i primi vaccini americani, ciò dipende solo dal fatto che quella carogna di Donald Trump decise di pompare un pacco di miliardi nella “Operation Warp Speed” che scatenò la competizione e la produzione industriale di vaccini in tempi e come mai era stato visto nella storia. E va aggiunto che la Pfizer non ebbe un dollaro ma solo euro tedeschi, proprio perché lo zazzeruto aveva scatenato la competizione fra le industrie farmaceutiche sperando che i vaccini arrivassero prima del 4 novembre, quando invece gli fecero la festa. Rinvio a un successivo articolo l’esame su quanto accadde il sei gennaio a Capitol Hill, quando una folla di forconisti tentò di scoperchiare come una scatola di tonno il Parlamento americano.

Da quelle parti, attaccare il Parlamento è reato federale e ti possono anche mandare alla sedia elettrica. È improbabile che ti lascino andare al governo. Ma stringiamo l’angolo dell’obiettivo su Joe Biden che ormai ha mosso i primi passi, seguito da presso dall’ex giudice Kamala Harris che si spaccia per “donna di colore” solo perché è figlia di alto funzionario indiano dell’Impero britannico. Biden finora si è dedicato a disfare le imprese più detestate dalla sinistra contro l’immigrazione clandestina, ma ha provveduto per via diplomatica a dissuadere i Paesi dell’America Centrale e specialmente il Guatemala dal mandare colonne di profughi. Ha promesso di affrontare il problema in modo umano e ragionevole, ma secondo “Law and Order”. I flussi hanno dato una frenata, ma il problema resta aperto.

Qual è dunque il primo bilancio provvisorio che si può azzardare dopo un solo mese dall’arrivo del nuovo presidente alla Casa Bianca? Politicamente cerca di prendere le distanze dallo Speaker della House Nancy Pelosi che ha dedicato la sua vita alla guerra contro Trump che vorrebbe processare finché morte non sopravvenga. Ha messo mano al piano vaccinale con una organizzazione che ha dato subito i suoi frutti in termini di rallentamento del numero delle morti, ma è deciso a trarre vantaggio della posizione di forza che Trump gli ha servito lasciandogli non soltanto una forza militare al top di tutti i tempi e di tutti i Paesi armati, ma con una industria tecnologica già avviata per la corsa verso Marte, che non è un’impresa geografica ma anche anti-cinese visto che la Repubblica Popolare ha già armato lo spazio dalla parte nascosta della Luna e sta sviluppando le tecniche di viaggio e insediamento spaziale.

Questo piano promette una cascata infinita di progressi tecnologici come avvenne dopo ciascuna delle guerre mondiali e dopo la corsa per la Luna che si concluse con lo sbarco sul satellite nel 1969. Probabilmente è sincero e credibile quando annuncia a bassa voce che “America is back” ma ha già dimostrato che questo ritorno è di nuovo imperiale: l’Europa è invitata a tornare al talamo con il tradizionale partner, ma stavolta non sarà necessariamente un matrimonio d’amore perché, al di là della benvenuta retorica atlantica, business is business.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.