La notte più buia della democrazia americana e l’allarme che riguarda tutti i sistemi democratici occidentali. È il filo conduttore dell’intervista a uno dei più autorevoli analisti di politica estera, profondo conoscitore del “pianeta Usa”, come di quello russo: l’ambasciatore Sergio Romano. Nella sua lunga e prestigiosa carriera diplomatica, è stato, tra l’altro, ambasciatore presso la Nato e ambasciatore a Mosca (1985-1989), nell’allora Unione Sovietica. E stato visiting professor all’Università della California e a Harvard, e ha insegnato all’Università di Pavia, a quella di Sassari e alla Bocconi di Milano. Tra i suoi numerosi scritti, ricordiamo, per quanto riguarda l’America, Il rischio americano (Longanesi, 2003); Il declino dell’impero americano (Longanesi, 2014); Trump e la fine dell’American dream (Longanesi, 2017)

L’assalto a Capitol Hill, e la conseguente battaglia che ha provocato cinque morti. Il neo presidente che parla di un atto insurrezionale, il presidente uscente che con le sue esternazioni ha incendiato l’America. Ambasciatore Romano, quella americana è una democrazia malata e quanto di quella “malattia” ci riguarda, come europei e italiani?
Effettivamente esistono due problemi: uno è quello dello stato della democrazia. E questo non vale soltanto per gli Stati Uniti. C’è una crisi della democrazia parlamentare, della democrazia rappresentativa abbastanza diffusa. L’abbiamo anche constatata alla Camera dei Comuni in Gran Bretagna, paralizzata per alcune sedute. E un problema molto serio, perché una certa risposta è già stata data a questa crisi della democrazia. Ed è una risposta non accettabile, vale a dire la diffusione di sistemi autoritari, che è sempre più frequente, e anche di partiti che giocano la carta sovranista, la carta del popolo contro la democrazia rappresentativa che intendono evidentemente attaccare. Il problema degli Stati Uniti può ricondursi a questo interrogativo: è una guerra civile o non è una guerra civile? Questo mi sembra il problema a cui tutti siamo interessati a trovare una risposta. Quando fu eletto Trump constatammo con quale rabbia e paura veniva accolto da una parte dell’opinione pubblica. Io, in un paio d’interviste dissi che c’era aria di guerra civile. Debbo dire che io stesso in seguito ho cercato in qualche modo di fare un passo indietro, perché guerra civile mi sembrava troppo per un Paese che poi oltretutto l’ha già fatta e sa che cosa rappresenta una guerra civile in termini di rotture, oltre che di perdite di vite. Ma un’aria di guerra civile c’era e continua ad esserci. Anzi, in queste ultime fasi abbiamo assistito ad un fenomeno che rasenta la guerra civile: l’attacco al Congresso l’occupazione del Congresso. Adesso c’è naturalmente il passo indietro di Trump, che mi sembra comprensibile perché oltretutto lui in questo momento è il condottiero di una parte importante del Paese ma vive ancora nella politica del Paese e non vorrebbe essere incriminato. Perché è questo che lui sta rischiando. E se lo incriminano, fanno una cosa giusta o una cosa sbagliata? Intendiamoci bene: questa incriminazione sarebbe del tutto meritata, ma se si va su questa strada, forse lo spingono allora ad essere ancor maggiore il condottiero degli avversari. Perché in questo caso non è più un presidente in carica, che in quanto tale contribuisce, perché così è la politica e la costituzione americana, a installare il suo successore. In caso di stretta, d’incriminazione, finirebbe per diventare il potenziale leader degli assalitori del Parlamento americano.

Trump si fa forte degli oltre 70 milioni di voti che lui ha ricevuto il 3 novembre. Si può dire che gli assaltatori di Capitol Hill a Washington, in qualche modo interpretano, estremizzandoli al massimo, i sentimenti che stanno nel profondo di questa parte, non marginale, dell’America che ha continuato a riconoscersi in lui?
Questo è l’altro quesito che noi ci dobbiamo porre. A parte il giudizio che ciascuno di noi può dare di ciò che è accaduto, l’importante è sapere ma che cosa vogliono queste persone? Hanno un programma? Ci sono dei temi su cui possono essere al limite interpretati, compresi? Chi sono? Io ho avuto l’impressione che questo facesse, per l’appunto, parte di quella crisi della democrazia che ormai è abbastanza diffusa. I parlamenti non sono più depositari della verità e non sono neanche più la medicina per tutto. Lo abbiamo constatato, insisto su questo, alla Camera dei Comuni, quella è la madre di tutti i parlamenti. Abbiamo tutti copiato gli inglesi, e adesso gli inglesi sono in questa situazione. La democrazia rappresentativa, quella classica, non funziona. In Gran Bretagna come negli Usa. E quando la democrazia non funziona e l’economia ha favorito la crescita incontrollata e dominante del potere finanziario, allora c’è qualcosa che non va e di cui dovremmo seriamente preoccuparci. Per tornare all’America, bisognerà cercare anche di capire che cosa vogliono, non certamente per dargli ragione ma quanto meno per cercare di evitare che questo malcontento vada crescendo e si radicalizzi ancora di più. Perché se cresce negli Stati Uniti, non rimane soltanto lì. Cosa vogliono? Effettivamente i parlamenti non funzionano molto bene, non siamo al punto dell’autodistruzione, ma certamente qualche problema c’è. Non bisogna dimenticare poi che gli Stati Uniti hanno delle caratteristiche particolari che vengono in qualche modo non dimenticate ma accantonate per un certo periodo, per poi rivenire alla luce. Le dico questo, perché il Paese è sempre stato razzista. Sempre. L’America continua ad avere una forte componente sociale per cui il nero non è uguale al bianco. La guerra civile non ha vinto, nel senso che gli oppositori di Lincoln non sono riusciti a ritornare alla formula razzista per il Sud, quindi il Sud ha effettivamente perso, però nel Paese quel sentimento razzista c’è ancora. Le dico di più: se domattina dovessi constatare che c’è anche dell’antisemitismo visibile, non ne sarei sorpreso.

Come valuta il comportamento tenuto anche in questo drammatico frangente dal neo presidente, Joe Biden. Ritiene che sia all’altezza di questa sfida democratica?
Biden non è un’aquila. Se avessimo parlato di Biden sei mesi fa, o avessimo ascoltato una conversazione fra americani sei mesi fa, avremmo sentito dire che Biden è un personaggio abbastanza mediocre, modesto, per carità molto per bene ma non un grande leader, etc. Se le sue azioni sono andate crescendo, fino al punto di spalancargli la soglia della Casa Bianca, lo deve soprattutto al fatto che il suo avversario preoccupa. La sua inattendibilità, inaffidabilità, imprevedibilità, spaventa, e non soltanto gli americani, anche chi stava fuori dal gioco non poteva non avere qualche preoccupazione. Trump ha fatto crescere le azioni di Biden. Noi siamo degli spettatori, certamente coinvolti, ma non siamo noi, l’Unione europea intendo in primo luogo, che cambiamo la politica americana.

Per tornare al sistema democratico. In una intervista a questo giornale, il professor Cassese ha sostenuto questa tesi: troppo potere a uno solo. La democrazia statunitense ha fallito. È stato un modello ma non ha retto alla prova dei tempi. È un giudizio troppo duro?
No, no, va bene. Sono d’accordo. Questo, tuttavia, ci porta su un’altra strada. Perché noi giudichiamo la democrazia parlamentare come se dovesse essere adatta a tutte le situazioni. Per molto tempo abbiamo pensato che fosse veramente la formula sì criticabile per molti aspetti ma comunque di gran lunga la migliore di quelle che erano sul mercato. Ora, però, le situazioni cambiano, le sfide da affrontare non sono le stesse, da una generazione all’altra. Adesso noi ci troviamo in una situazione in cui è finita la Guerra fredda. L’abbiamo applaudita la fine della Guerra fredda. Ma non avremmo dovuto farlo…

Perché, ambasciatore Romano?
La Guerra fredda ci ha garantito mezzo secolo di pace. Grazie alla Guerra fredda, la guerra combattuta era diventata non dico impossibile, ma altamente improbabile. Perché tutti sapevano che un conflitto sarebbe diventato inevitabilmente nucleare e nessuno sapeva come si fanno le guerre nucleari senza mandare il mondo a pezzi. La Guerra fredda non c’è più. Ma, vede, per tenere coeso un Paese occorre un nemico. Gli Stati Uniti lo cercano a Pechino. Ma come si fa a far diventare un nemico, un enorme mercato su cui vivono centinaia di migliaia di operai americani. E per di più, un Paese nucleare. E allora i governi si muovono fra obiettivi difficilmente compatibili, come, appunto, il rapporto con la Cina. Un rapporto difficile, perché poi occorre tener presente che la Cina non è soltanto un grande mercato, è il maggior possessore di debito pubblico americano. Poi arriva una epidemia, che per certi aspetti non è diversa da altre epidemie, anche se pensavamo che i progressi nel mondo sanitario e della ricerca ci avrebbero allontanato da queste prospettive. La “spagnola” era una sciocchezza in confronto a questa. La “spagnola” ha provocato la morte di milioni di persone, e al momento detiene ancora questo triste primato, ma si usciva da una guerra, le industrie non ne hanno sofferto, non abbiamo mandato a casa centinaia di migliaia di operai per la “spagnola”, anzi stavano rientrando dal fronte. Adesso invece stiamo mandando a casa tantissimi lavoratori. Stiamo creando disoccupazione. È un problema che i governi devono affrontare e non sanno come farlo. O meglio, sanno benissimo che bisogna fare delle scelte. Hanno deciso di scegliere, ed è inevitabilmente la migliore delle scelte possibili, la sopravvivenza. Quindi il massimo di sicurezza possibile, ma il massimo di sicurezza possibile significa il massimo di disoccupazione possibile.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.