Sono molte le lezioni da trarre da quello che è avvenuto negli Stati Uniti, in effetti non solo nella drammatica serata dell’altro ieri, ma in questi quattro anni. Certamente, i partiti in quanto tali hanno mille difetti. Spesso si burocratizzano, fanno al loro interno una sorta di selezione alla rovescia e così si distaccano da una parte del loro elettorato e dal popolo in generale per cui, alla fine, o si suicidano o creano le migliori condizioni per essere distrutti. Però, malgrado questi e altri difetti, finora non è stato inventato alcun meccanismo sostitutivo che comunque assicuri una dialettica democratica reale. D’altra parte l’esistenza di partiti forti non esclude il ruolo di leader altrettanto forti. Non è infatti che nella Prima Repubblica non ci siano stati personaggi di grande statura: De Gasperi, Togliatti, Nenni, La Malfa, Saragat, poi Andreotti, Moro, Fanfani, Craxi e Berlinguer sono stati tutti leader la cui statura non può esser certo messa in discussione, ma essi avevano alle spalle partiti di grande spessore, radicati nella società, animati da un permanente dibattito che li condizionava fortemente.
La vicenda di Trump conferma il fatto che l’esperienza di un uomo solo al comando è quasi sempre portatrice di avventure e di sventure. Nel 2016 Trump ha conquistato il potere per un paio di situazioni imprevedibili: fondamentalmente la globalizzazione ha avuto un andamento che ha sconvolto la geografia economica e anche quella politica del mondo e degli stessi Stati Uniti. Per altro verso, Putin – primo nel mondo – ha capito che attraverso l’uso politico di internet poteva manipolare le democrazie occidentali, in primo luogo quella americana. Trump ha vinto le primarie e le elezioni malgrado e contro il Partito repubblicano e sconfiggendo la Clinton anche per le caratteristiche del sistema elettorale statunitense perché comunque essa ottenne 3 milioni di voti in più di lui. I suoi quattro anni di presidenza non solo hanno smantellato gli aspetti fondamentali della linea politica repubblicana, ma quelli degli Usa nel loro complesso (il multilateralismo, l’importanza della Nato, lo scontro con la Russia, i buoni rapporti con l’Unione Europea). Per di più egli ha sistematicamente mirato a smantellare il tradizionale Partito repubblicano e a costruire su di esso una leadership trumpiana nel lungo periodo. Egli ha anche radicalizzato in modo parossistico lo scontro politico e anche quello razziale negli Usa. Questa radicalizzazione certamente gli ha portato un consenso personale assai elevato, perché dei 74 milioni di voti da lui ottenuti parte di essi erano suoi più che del Partito repubblicano tradizionale. Però c’è stato anche il rovescio della medaglia. Trump ha provocato una vastissima reazione di rigetto in quasi tutte le grandi città americane e ha portato consenso a un candidato democratico, nel contempo equilibrato e scolorito come Biden, da parte di tutto il centro e di una larghissima area della sinistra, fasce politico-elettorali che ruotano intorno al Partito democratico, ma che raramente riescono a sommarsi. Non ce la fecero per esempio con la Clinton, ce l’hanno fatta con Biden che, non lo dovrebbero dimenticare i trumpisti italiani, ha comunque preso qualcosa come 7 milioni di voti in più di Trump e per di più ben distribuiti negli States.
Ma le cose non si fermano qui. Trump era stato informato dalla Cia fin dal gennaio 2020 della pericolosità del virus nato in Cina. La linea sulla pandemia però è stata quella di tutta la destra mondiale (il primo Johnson, poi Bolsonaro, nel loro piccolo Salvini e l’Assolombarda): la libera attività economica viene prima della tutela della salute anche perché il virus colpisce specialmente gli anziani che non contribuiscono più al sistema produttivo. Questa scelta non gli ha giovato perché la pandemia negli Usa si sta risolvendo in una strage, già oggi i morti sono di più di quelli della guerra del Vietnam, per di più è stata la pandemia e non un tenebroso piano dei democratici a spingere molti americani a votare per posta. In modo infantile e primitivo, Trump ha considerato il Partito repubblicano un soggetto che si poteva mettere sotto i piedi trasformandolo in un partito a conduzione personale e familiare e la Casa Bianca una sorta di sua proprietà personale da conservare per altri quattro anni ricorrendo a tutti i mezzi. Senonché, è accaduto un fatto paradossale. Queste elezioni sono state più perse da Trump che vinte da Biden, per il quale ha votato una marea di gente che non sopportava più di avere un tipo come The Donald quale presidente degli Stati Uniti.
L’altro ieri alla televisione anche i trumpiani italiani (Maria Giovanna Maglie, Daniele Capezzone) hanno sostenuto che il voto per posta è stato truccato. Ora, come abbiamo visto l’aumento del voto per posta è avvenuto per il contagio da Trump trascurato, in secondo luogo il parere dei trumpiani d’Italia è in contraddizione con quello che hanno affermato i governatori repubblicani, in un paio di occasioni la Corte Suprema, tutte le strutture amministrative e giudiziarie che hanno respinto i 60 ricorsi presentati da Trump. Di fronte a una incontestabile sconfitta nella logica dell’uomo solo al comando, il presidente uscente ha giocato due ultime carte disperate. In primo luogo quella di far contestare comunque il voto dai governatori repubblicani e poi da Pence in modo tale da imporre in parlamento il voto per Stati. Anche questa seconda operazione è stata contestata da tutto il personale istituzionale, parlamentare e politico repubblicano. La seconda via scelta da Trump è stata quella di convocare a Washington una manifestazione oceanica eccitando la gente e spingendola a marciare contro Capitol Hill.
Ora, non servivano raffinati servizi segreti o chissà quale controllo su internet per capire che Congresso e Senato andavano presidiati non dal corrispettivo americano dei nostri vigili urbani, ma dalla Guarda Nazionale. Però Trump, che è ancora il presidente degli Usa, ha vietato l’impiego della Guardia Nazionale e così è avvenuto il patatrac. I suoi sostenitori, per di più da lui abbondantemente eccitati, non solo hanno manifestato davanti al Campidoglio, ma lo hanno occupato con una operazione per metà golpista, per metà folle. Siccome però a guidare il tutto fortunatamente non c’erano Lenin e Trotsky, ma un miliardario un po’ paranoico e molto analfabeta, il tutto si è risolto in un autogoal per l’uomo solo al comando che però era e forse è tuttora intenzionato a tramutare la dialettica democratica americana in una sostanziale guerra civile e per altro verso a distruggere il prestigio americano nel mondo: grazie a lui ieri le televisioni di tutto il mondo hanno dato degli Stati Uniti un’immagine per cui Maduro, gli eredi cubani di Castro e Putin devono essersi fatti molte risate. Proprio Putin in quelle ore si è certamente congratulato con se stesso: attraverso l’oculato uso destabilizzante di internet si è preso una parziale rivincita sul 1989.
I veleni messi in circolo da Trump attraversano il mondo e sono da tempo arrivati in Italia dove, specie in seguito all’operazione di Mani Pulite del ’92-’94, quasi tutti i partiti sono stati distrutti. A nostro avviso specie di fronte alla combinazione drammatica di pandemia e recessione sarebbe invece fondamentale per la democrazia italiana ricostruire dei partiti come soggetti democratici ricchi di competenza e di cultura. Purtroppo siamo molto lontani da tutto ciò, basti pensare che l’unico partito esistente, cioè il Pd, è così subalterno ai pubblici ministeri che ovunque – prima a Napoli con Bassolino, poi in Lombardia con Penati, quindi in Umbria con la Marini, infine in Calabria con Oliverio – lascia massacrare donne e uomini di specchiata onestà dai magistrati e ha anche contribuito ad annullare il finanziamento pubblico ai partiti. Siamo messi molto male. Ma quello che ha combinato Trump negli Usa (e quello che può combinare anche nel futuro) ci dice che anche in Italia corriamo rischi gravissimi perché ci sono diversi ammiratori ed emuli di Trump, magari con rapporti pregressi con Putin, e in televisione parlano spesso i loro grotteschi maître à penser.