Fino all’anno scorso, per molti americani, Joseph Robinette Biden era soltanto “Sleepy Joe” (il nomignolo glielo aveva affibbiato Donald Trump). Ma nelle ultime settimane il presidente Biden sta smentendo clamorosamente questa caricatura, con un piano poderoso di investimenti pubblici e di riforme fiscali. Le grandi aziende dovranno pagare tasse più alte per aiutare a finanziare l’agenda economica della Casa Bianca. È l’obiettivo che Joe Biden ha annunciato la settimana scorsa. Altro che “sonnolento”. Il suo piano prevede la raccolta di 2,5 trilioni di dollari nei prossimi 15 anni tramite la revisione dell’imposta sulle società.

Al fianco di Biden, il segretario al Tesoro Janet L. Yellen ha spiegato che il piano porrà fine a una «corsa al ribasso» globale della tassazione delle società. «Le nostre entrate fiscali sono già al livello più basso da generazioni», ha detto Yellen. «Se continuano a diminuire, avremo meno soldi da investire in strade, ponti, banda larga e ricerca e sviluppo». Il Dipartimento del Tesoro prevede di aumentare l’aliquota dell’imposta sulle società dal 21% al 28%. L’aumento avvicinerebbe l’aliquota dell’imposta sulle società americane alla media delle altre economie avanzate. E rimarrebbe comunque inferiore al periodo che ha preceduto i tagli fiscali di Trump del 2017, quando l’aliquota era del 35%.

Il piano di Biden, inoltre, non si limiterebbe ad aumentare l’aliquota della tassa minima, ma l’applicherebbe anche al reddito che le società americane guadagnano all’estero. In sostanza, Biden cerca di rendere la vita difficile per quelle aziende che registrano i propri profitti nei paesi dove il prelievo fiscale è più favorevole. Nel mirino la pratica delle “inversions”, grazie alla quale le società di diversi paesi si fondono, creando una nuova società con sede all’estero al fine di eludere il fisco americano. Secondo il Dipartimento del Tesoro statunitense le modifiche proposte alla tassazione offshore permetterebbero di recuperare circa 700 miliardi di dollari in 10 anni. Il successo dell’operazione non è scontato. Serve l’approvazione del Congresso e la Camera dei rappresentanti è spaccata perfettamente a metà tra democratici e repubblicani, salvo il voto determinante della vicepresidente Kamala Harris. I membri della Business Roundtable, che rappresenta gli amministratori delegati delle corporations a Washington, già esercitano pressioni, avvertendo che le proposte fiscali di Biden espongono «gli Stati Uniti a un grave svantaggio competitivo».

Ma non basta. La Casa Bianca ha un obiettivo ancora più ambizioso. Una vera e propria tassa minima globale da applicare alle multinazionali. Queste ultime dovrebbero versare ai governi nazionali una parte dei profitti realizzati in ciascun paese. Il piano si applicherebbe ai profitti globali delle società più grandi – in modo particolare alle Big Tech statunitensi – indipendentemente dalla loro presenza fisica in un determinato paese. Il Tesoro americano ha inviato la proposta ai 135 paesi che a breve dovranno rinegoziare i criteri della tassazione internazionale all’Ocse. Un eventuale accordo all’Ocse aiuterebbe Joe Biden, anche sul fronte interno, nell’intento di aumentare le tasse sulle società statunitensi: un’aliquota fiscale minima globale, infatti, ridurrebbe la concorrenza fiscale da parte di altri paesi. Sul fronte internazionale, il presidente americano confida in una stabilizzazione del sistema fiscale globale per fermare la proliferazione delle tasse digitali nazionali e per impedire l’elusione fiscale con il trasferimento dei profitti all’estero.

In Europa, i paesi maggiormente svantaggiati da questa iniziativa, sono l’Irlanda, che ha un’aliquota di imposta sulle società molto bassa (12,5%), e l’Olanda, uno dei maggiori beneficiari delle tecniche di trasferimento degli utili delle multinazionali. Ciò nonostante, Hans Vijlbrief, il segretario di Stato olandese per le finanze, giudica positivamente la proposta: “un enorme passo avanti verso la ricerca di soluzioni globali e lo sviluppo di regole efficaci”. Apprezzamenti per la proposta di Biden arrivano da Bruno Le Maire, ministro delle finanze francese, e da Wolfgang Schäuble, suo omologo tedesco. Per Le Maire «un accordo storico è a portata di mano». E Schäuble assicura: «Il governo tedesco è fiducioso che un accordo sulla tassazione dell’economia digitale possa essere raggiunto entro la metà del 2021». «Pienamente d’accordo con la richiesta di un’imposta minima globale sulle società» si è dichiarato anche Mario Draghi, primo ministro italiano che quest’anno presiederà il G20. Un appuntamento cruciale, nel quale, con il sostegno dell’Ocse, la riforma fiscale globale rivolta alle azienda hi-tech potrebbe infine ricevere il suo battesimo.

Nei quindici anni sotto la guida del messicano Angel Gurría, l’Ocse ha conquistato un ruolo preminente tra le organizzazioni internazionali, diventando lo strategic advisor del G20, dal 2009 sui temi del commercio internazionale e, successivamente, sulle altre aree di competenza. Tra queste c’è proprio il contrasto all’evasione e all’elusione fiscale delle multinazionali. Un problema globale che causa ogni anno la perdita di una somma tra i 100 e i 240 miliardi di dollari. Nel 2013, l’Ocse e il G20 hanno creato il Beps (Inclusive Framework on Base Erosion and Profit Shifting), una struttura concepita per contrastare le pratiche delle multinazionali che approfittano dei buchi nei sistemi tributari degli stati nazionali per eludere il fisco.

Il Beps ha portato alla revisione di più di 120 regimi fiscali preferenziali e ha favorito lo scambio di informazioni antievasione contenute in più di 6 mila sentenze fiscali. Nello scorso ottobre, sempre con il supporto dell’Ocse, i Paesi del G20 avevano rinnovato l’impegno condiviso per l’introduzione di una digital tax. Ma proprio gli Stati Uniti di Donald Trump si opposero all’iniziativa. Adesso, però, c’è Joe Biden. E il 2021 potrebbe diventare l’anno della rivoluzione fiscale globale.

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