Permane l’assenza di una visione organica dell’intervento pubblico in economia, ma si assiste a decisioni di singole imprese ed enti pubblici, nonché dello stesso Governo avulse da un quadro generale di riferimento. Sace, il soggetto pubblico per l’assicurazione dei crediti all’esportazione, proseguendo in un andirivieni che obbedisce non a una strategia rivolta alle esigenze del settore, bensì a convenienze finanziarie tempo per tempo dalla “ proprietaria” Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) viene riacquistata dall’originario “ proprietario”, il Tesoro. Intanto, sembrerebbe che la Cdp intenda uscire dall’impresa di costruzione Webuild nella quale detiene una partecipazione di oltre il 18 per cento, a fronte del 45 per cento circa del gruppo Salini. La Cassa deve altresì definire la propria posizione in Tim, che si affianca a quella in Open Fiber, in relazione alle decisioni da assumere sulla rete unica.

Con l’insediamento recente del nuovo amministratore delegato, Dario Scannapieco, si disse che sarebbe stata l’occasione per mettere ordine nelle partecipazioni della Cdp, per chiarire bene, finalmente, la sua missione, per superare la visione da jolly, chiamato a corrispondere a ogni esigenza di un complesso intervento finanziario – dalle autostrade alle costruzioni, alla rete, finanche nell’ex Ilva – in verità non sempre rispondendo positivamente e aderendo. Di Scannapieco è nota la competenza; ora è atteso alla prova di una necessaria riorganizzazione e della necessaria definizione del mandato dell’Istituto – oggi incoerente con la sua operatività avendo la qualifica di intermediario finanziario non bancario – definizione che poi spetta a Governo e Parlamento approvare.
Nel panorama nazionale si susseguono nel frattempo casi di crisi aziendali e di delocalizzazioni: da ultimo, sono all’ordine del giorno le vicende che riguardano Gkn, Whirlpool, Embraco. Alcuni sono casi che si segnalano per la presenza maggioritaria nella proprietà da parte di fondi che certamente non hanno un approccio da investitori di lungo periodo.

Intanto, a Bruxelles il piano sul clima della Commissione Ue – che tra l’altro propone una riduzione delle emissioni nocive del 55 per cento entro il 2030 ed emissioni zero per le nuove automobili al 2035 – è contestato dall’interno della stessa Commissione, da sei Commissari, a testimonianza delle difficoltà di percorrere una strada pur ineludibile, che però solleva il problema di come conciliare ambiente, clima ed economia. Le misure nazionali progettate in Italia con il Piano di ripresa e resilienza, in particolare quelle riguardanti la transizione ecologica e la stessa transizione digitale, sono indubbiamente correlate alle scelte dell’Unione, ora, alla partenza, già criticate. In ogni caso, non si potrà attendere ovviamente l’attuazione di queste misure per affrontare le situazioni di difficoltà e quelle di settori da riconvertire e ristrutturare. Occorre una normativa e una politica di raccordo per questa fase con le scelte affrontate con più ampio respiro per la transizione. Il passaggio, evocato dalla parola transizione, non si compie istantaneamente, ma si deve affrontare sin d’ora impiegando tutti gli strumenti a disposizione, a cominciare da quelli per la tutela dei lavoratori, anche essi da riconvertire.

Tra la fine degli anni ‘70 e gli inizi degli ‘80 del secolo scorso fu approvata, per gli impatti registrati dai due shock petroliferi, una legge organica sulla ristrutturazione e riconversione industriale. Oggi, naturalmente, le condizioni sono nettamente diverse; alcuni degli strumenti allora impiegati adesso non sono utilizzabili, anche per i vincoli comunitari. Tuttavia, l’esigenza appare abbastanza vicina a quella allora avvertita. Soprattutto, vi è necessità di definire un quadro dell’intervento pubblico, non dirigistico e da supergestore, ma compatibile con il mercato. A questo impegno finora il Governo Draghi, come accennato, non ha corrisposto, neppure quando il Premier è stato sollecitato a esprimere la propria posizione al riguardo. È ora, invece, che il vuoto venga colmato, anche per evitare che si diffondano equivoci che inducano a paventare il riproporsi, pian piano senza alcuna teorizzazione o esplicitazione, di un nuovo Iri (seconda fase della sua vita) o addirittura della Gepi, per la rottamazione di imprese. Ma una politica industriale è necessaria, tuttavia rispettosa dei limiti indicati e coerente con l’approdo verso la transizione, rafforzando anche le misure sociali e di protezione del lavoro.