La war chip e il nuovo corso
Tra Usa e Cina è guerra tecnologica, e Draghi si schiera con Biden
Nel corso del Consiglio dei ministri del 31 marzo scorso, il premier Mario Draghi ha detto no al tentativo di acquisto del 70% della Lpe di Baranzate (Milano) da parte della società di diritto cinese Shenzen Invenland Holdings. L’azienda italiana è una società attiva nello sviluppo di accessori per la produzione di semiconduttori, elementi nanotecnologici indispensabili per il funzionamento dei dispositivi elettronici e della loro capacità di memoria. E il veto imposto con il golden power – ispirato dal Ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti – non è la prima iniziativa adottata dal Presidente del Consiglio nei confronti di aziende del dragone.
Nelle settimane precedenti, infatti, Draghi aveva imposto prescrizioni sui contratti di fornitura di tecnologia 5G da parte di società cinesi come Zte e Huawei ad aziende italiane come Linkem e Fastweb. Ma non si è trattato di un banale rigurgito di sovranismo ispirato dalla Lega. I semiconduttori sono componenti necessari di smartphone, pc, tablet, laptop per un valore pari ai tre quinti degli acquisti globali di chip. Allo stesso modo, i semiconduttori sono utilizzati nell’industria automobilistica (10% del mercato) e nell’industria della difesa, nella quale sono ormai indispensabili per guidare le traiettorie dei missili e dei droni da combattimento. Il settore economico dei semiconduttori vale 440 miliardi di dollari di fatturato annuo, ed è in costante crescita (+7,7% previsto nel 2021).
Ma la filiera della produzione è distinta in diverse fasi: è lì che si gioca la forza produttiva di diversi attori.
Gli Stati Uniti, per esempio, sono leader assoluti nella progettazione elettronica del layout dei microchip con il 90% del mercato: otto delle quindici più grandi aziende di semiconduttori nel mondo sono americane e controllano la metà delle vendite globali del prodotto. Viceversa, l’attività di fonderia dei semiconduttori è dominata da Taiwan (23% della capacità produttiva) e dalla Corea del Sud (26%). In generale, l’Asia orientale detiene circa l’80% della produzione mondiale di chip. In questo campo da gioco globale, la Cina controlla il 12% del mercato con una crescita esponenziale che potrebbe portarla al 28% entro il 2030.
Al contrario, negli ultimi trent’anni, Stati Uniti ed Europa hanno visto scemare la loro capacità produttiva e oggi coprono rispettivamente il 12% e il 10% del mercato. Insomma, stiamo parlando di un settore di importanza strategica globale, nel quale si gioca un duello economico e tecnologico senza esclusione di colpi tra Stati Uniti e Cina, mentre l’Unione europea fatica a trovare il suo spazio. Conscio di questa sfida, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, per arginare la carenza di chip e ridurre la dipendenza dai paesi asiatici, già nel febbraio scorso, ha disposto con un ordine esecutivo lo stanziamento di quasi 40 miliardi di dollari sulla produzione made in Usa. Si capisce così perché Mario Draghi cerchi di difendere le società italiane dall’assalto di quelle cinesi: anche l’Italia, nel suo piccolo, è chiamata a rafforzare il “fronte occidentale”.
Dall’altra parte dell’oceano, all’inizio della settimana scorsa, Joe Biden ha convocato un vertice virtuale con i manager delle compagnie automobilistiche e di altre imprese interessate. Alla Casa Bianca c’erano gli amministratori delegati di General Motors, Ford, Stellantis, Alphabet, Intel nonché i rappresentanti della Taiwan Semiconductor Manufacturing Company, della Samsung, di HP e di altre aziende tecnologiche. Tutti convocati per affrontare la crisi che ha colpito settori chiave: elettronica di consumo, prodotti farmaceutici e produzione di automobili. Pochi settori sono stati colpiti così duramente come l’industria automobilistica, che ha dovuto rallentare o interrompere la produzione negli stabilimenti negli Stati Uniti. Con conseguenze pesanti anche per i consumatori. I prezzi dei veicoli – già in salita – hanno conosciuto una impennata.
Trovare l’auto o il camion preferito può essere complicato visto che le scorte dei concessionari sono in calo di circa un milione di veicoli rispetto alla media di questo periodo dell’anno. La crisi potrebbe aumentare il costo dei chip utilizzati nelle automobili, con la prospettiva di un aumento record dei prezzi dei veicoli. Secondo la società di ricerca AlixPartners, i ricavi globali delle auto dovrebbero scendere di oltre 60 miliardi di dollari quest’anno. Solo nel primo trimestre, i produttori di tutto il mondo perderanno circa 1,4 milioni di veicoli in produzione, prevede la società di ricerca. I produttori sperano di recuperare una parte delle perdite del 2020 aumentando la produzione nel corso del 2021. Ford, ad esempio, ha informato i dipendenti del sindacato che annullerà la normale chiusura estiva quest’anno. «I chip sono infrastruttura. Dobbiamo costruire l’infrastruttura di oggi e non riparare quella di ieri. Il piano che propongo proteggerà la nostra catena di fornitura e rivitalizzerà la produzione americana»: ecco la promessa di Biden. «Non vediamo l’ora di continuare a lavorare con l’amministrazione e i membri del Congresso per affrontare la carenza globale», ha dichiarato la General Motors in comunicato dopo la conferenza.
Intanto, per interrompere l’esternalizzazione della produzione di chip, il presidente Biden ha deciso di investire, tramite l’American Jobs Act e il Chips for American Act, 50 miliardi di dollari in 5 anni a beneficio dell’industria statunitense dei semiconduttori. Altri 40 miliardi saranno destinati all’aggiornamento delle capacità di ricerca nei laboratori del paese e all’istituzione di un Centro Nazionale di Tecnologia dei Semiconduttori con il compito di garantire la sicurezza della catena di approvvigionamento. Con questi investimenti poderosi uniti alla solidità della struttura industriale, gli Stati Uniti hanno molte possibilità di aumentare rapidamente la loro capacità di produzione di semiconduttori. E pure con relativa facilità. Ne è convinta, per esempio, Nina Xiang, fondatrice di China Money Network: «Nonostante la retorica di Biden sui progressi della Cina, gli Stati Uniti sono il leader assoluto nei semiconduttori con un margine enorme.
Con il 47% le aziende con sede negli Stati Uniti detengono la quota maggiore del mercato globale dei semiconduttori nel 2020. Le esportazioni di semiconduttori statunitensi per un valore di 49 miliardi di dollari si sono classificate al quarto posto nell’elenco dei prodotti venduti all’estero lo scorso anno, mentre l’America domina anche nella progettazione di chip, software di progettazione e proprietà intellettuale di base, nonché nel settore delle apparecchiature e degli strumenti per semiconduttori». Di fronte a questa potenza di fuoco, l’Unione europea cerca di entrare in gioco sforzandosi di integrare la capacità produttiva dei diversi paesi membri, che da soli sarebbero dei nani economici e tecnologici.
La Bussola per il digitale 2030 della Commissione europea indica due obiettivi strategici per diventare un player globale: l’aumento della produzione di semiconduttori in Europa, dall’attuale 10% del valore della produzione mondiale al 20% e lo sviluppo della prossima generazione di microprocessori (da 2 nanometri: circa venti in meno rispetto alla misura attuale prodotta dalle industrie europee). Il problema dello sviluppo della capacità produttiva riguarda anche la Cina. Fino ad oggi la Semiconductor Manufacturing International Corporation (Smic), azienda controllata dal governo di Pechino, ha prodotto processori con transistor da 14 nanometri.
Per il resto dell’approvvigionamento il gigante asiatico dipende dalle importazioni: solo 27 chip su 100 venduti nel mercato interno sono prodotti da aziende nazionali. Anche per questo motivo la Cina sta cercando di estendere le sue mire su Taiwan. L’isola del Pacifico, infatti, non è soltanto un territorio che il governo di Xi Jinping considera come una sua pertinenza sul piano politico. È soprattutto il leader globale nella produzione dei semiconduttori. La Taiwan Semiconductor Manufacturing Company (Tsmc) detiene una quota di mercato del 90% sui chip compresi tra i 5 e i 10 nanometri che rappresentano la frontiera tecnologica di quest’epoca. Tant’è vero che presso la compagnia di Taipei si riforniscono clienti come Apple, Sony, Google, Ford e Honda. Per la Tmsc la sfida del prossimo triennio sarà lo sviluppo delle tecnologie a 3nm e 2nm. Un altro motivo per attirare gli appetiti dell’ingombrante vicino cinese.
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