Se c’è un politico, e uno studioso, che ha preso di petto la “questione fiscale”, il suo nome è Vincenzo Visco. Per dire, in breve sintesi: è stato ministro delle Finanze dal 1996 al 2000, ministro del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica dal 2000 al 2001 e vice ministro dell’Economia con delega alle Finanze dal 2006 al 2008. Parlamentare per 25 anni e 7 legislature, dal 2001 è presidente del Centro studi NENS, Nuova Economia Nuova Società, di cui è uno dei fondatori. Assieme a Romano Prodi, Visco è stato co-promotore di una lettera aperta al presidente del Consiglio Mario Draghi in qualità di presidente di turno del G20, chiedendo di supportare la riforma della tassazione delle multinazionali attualmente in discussione in sede Ocse.

«L’opposizione dei paradisi fiscali di fatto che operano nel contesto europeo è già iniziata e si somma all’inevitabile azione di lobbying delle multinazionali contro un accordo considerato penalizzante, se confrontato con lo status quo estremamente favorevole raggiunto grazie alla farraginosità del sistema e alla libera concorrenza fiscale tra Stati – rimarca l’appello sottoscritto da autorevoli economisti, fiscalisti esponenti del mondo della cultura – È necessario che l’Italia faccia sentire la sua voce a supporto di questa riforma e che insieme ai suoi partner europei, in particolare Germania, Francia e Spagna, sostenga attivamente la proposta avanzata dall’amministrazione Biden, in vista di un accordo ambizioso. Le chiediamo quindi Presidente Draghi di esprimersi pubblicamente a favore della proposta di un’aliquota minima globale non inferiore al 21% e ad usare tutto il suo peso internazionale e la sua influenza per convincere anche gli altri paesi del G20 affinché venga raggiunto un accordo su un sistema impositivo equo per le imprese e capace di riallocare le ingenti risorse congelate nei paradisi fiscali, ai fini di promuovere la ripresa economica e il benessere di tutta l’umanità». Quanto all’inquilino della Casa Bianca che si ripromette di tassare i super ricchi, Visco ha recentemente rimarcato: «Da noi il presidente degli Stati Uniti passa per un radicale – ma non fa che interpretare lo spirito del tempo, la sua proposta di una minimun tax sulle multinazionali ha dato una scossa a un dibattito che langue da più di dieci anni in sede Ocse, si svegli anche la sinistra nel nostro Paese».

Il segretario del Partito democratico, Enrico Letta, ha proposto una dote di 10mila euro ai 18enni meno abbienti, da finanziare con l’aumento delle tasse di successione dei ricchi, con patrimoni oltre i 5 milioni. C’è chi ha parlato di una proposta velleitaria, chi ha risposto con un silenzio imbarazzato, chi ha gridato “Ecco smascherato il partito delle tasse”, chi, invece, citando Nanni Moretti, ha gioito: finalmente ha detto una cosa di sinistra”. Lei come la pensa?
Sul piano politico la proposta di Letta ha indubbiamente avuto il merito di collegare un (lieve) aumento di imposizione a un intervento di politica sociale a carattere redistributivo: da pochi ricchi ai giovani che diventano maggiorenni. La polemica che ne è seguita dimostra chiaramente quali sono le differenze fondamentali tra destra e sinistra in materia fiscale e di finanza pubblica: la destra non solo difende, in maniera addirittura spudorata nel caso in esame, i ricchi, ma è contraria anche allo stato sociale in quanto tale. La polemica antitasse, infatti, e le esortazioni a tagliare la spesa pubblica ad esse collegate, sono rivolte essenzialmente contro le spese per il welfare che le destre vorrebbero ridimensionare o privatizzare. Le polemiche contro il reddito di cittadinanza avevano lo stesso significato e la stessa valenza. In ogni caso, nello specifico la proposta di Letta è condivisibile per quanto riguarda l’imposta di successione che in verità è troppo ridotta in Italia, ma mi convince molto meno la destinazione come “dote”. Sarebbe preferibile un programma di formazione, di borse di studio, di sostegno di nuove iniziative, piuttosto che un intervento generalizzato che oltre tutto non coinvolgerebbe neanche tutti i diciottenni. Infine, un’ultima notazione: se si volesse utilizzare l’imposta di successione come un efficace strumento a fini di redistribuzione del reddito, come molti ritengono si debba fare, a parte gli ostacoli culturali e politici che tale proposito incontrerebbe, bisognerebbe fare l’esatto contrario di quanto fece Augusto, e cioè introdurre aliquote molto elevate nella trasmissione in linea diretta dei patrimoni (figli, nipoti e coniuge), salvo minimi imponibili anche generosi, e incentivare con altre misure la destinazione di quote del patrimonio a persone o istituzioni esterne alla cerchia familiare.

La critica di alcuni è stata sul metodo, l’aver lanciato la proposta fuori da un disegno d’insieme. In fondo lo stesso Draghi ha risposto che se ne può discutere solo dentro una cornice complessiva.
In parte il rilievo può essere corretto, ma è anche vero che una riforma generale è pur sempre composta da singoli interventi specifici: generale deve essere la concezione e la coerenza interna della proposta.

Ma per il Pd, o qualunque altro partito di sinistra, essere additato come il “partito delle tasse” è un insulto?
La sinistra, almeno in Italia, ma come si è visto nelle ultime settimane molto meno in America, è vittima e subalterna ad una cultura antitasse che ha prevalso in occidente negli ultimi decenni: le tasse si possono solo ridurre, mai aumentare, e anche farle pagare (contrasto all’evasione) appare discutibile, anzi politicamente pericoloso. La questione tuttavia è semplice: bisogna finanziare la sanità, la previdenza, l’istruzione, l’assistenza, la disoccupazione, oltre alla difesa, alla giustizia all’ordine pubblico. Come si fa? A debito o facendo pagare le tasse? O si torna alla Stato minimo che è il risultato inevitabile di un mondo a bassa tassazione? Se la sinistra non è in grado di porre la questione, e il dibattito relativo, in questi termini e continua a manifestare imbarazzo e “coda di paglia” in materia fiscale, non solo non può più definirsi sinistra, ma è destinata meritatamente alla sconfitta: lo stato sociale, infatti, non è altro che il welfare anche per i poveri finanziato con le tasse di tutti, ricchi compresi.

«Ripartire dal lavoro: questa dovrebbe essere la parola d’ordine della sinistra di oggi» Così Mario Tronti in una intervista a questo giornale. Condivide questa asserzione e come andrebbe declinata?
Il lavoro è alla base della dignità degli uomini, sempre che esso si svolga in maniera rispettosa di tale dignità. È giusto ripartire da lì, valorizzando una funzione fin troppo svalutata economicamente e culturalmente negli ultimi decenni. A tal fine è necessario rivalutare il ruolo del sindacato approvando una legge sulla rappresentanza, e tornare a porre l’obiettivo della piena occupazione al centro della politica economica, come avveniva negli anni ’50-’60 del secolo scorso.

La Cgil ha evocato la possibilità di uno sciopero generale. Uno scenario che di questi tempi sembra essere diventato eccezionale, quasi “eversivo”. Eppure in una società democratica il conflitto sociale non dovrebbe incutere paura. O a prevalere è il “non disturbare il manovratore”, in questo caso Mario Draghi?
La minaccia di sciopero generale era collegata alla norma sugli appalti e sul massimo ribasso. Venuta meno la norma incriminata è caduta anche l’ipotesi sciopero. È evidente comunque che il governo Draghi ha avuto anche l’effetto di anestetizzare il dibattito politico in Italia, costringendo la destra ad attenuare molto le polemiche pretestuose, gli attacchi personali, le fake news che costituivano il suo bagaglio per la lotta politica. Ciò è certamente un bene. Comunque il conflitto nei limiti della legalità e della correttezza dei comportamenti, è l’essenza stessa della democrazia. Se esso non viene guidato e gestito dalla sinistra, sarà inevitabilmente preda del populismo della destra.

Ogni Primo ministro, di qualunque coloritura politica, nelle sue dichiarazioni d’intenti tira fuori la lotta all’evasione fiscale. E poi ?
In Italia l’evasione è un fenomeno di massa. Riguarda alcuni milioni di contribuenti. Quindi potenzialmente almeno 10 milioni di voti. Ciò suggerisce prudenza e ipocrisia ai politici. Nessuno vuole prendere di petto la questione. L’unica eccezione sono stati i due governi Prodi nei quali io avevo la responsabilità delle Finanze, e il recupero di evasione fu evidente e rilevante in ambedue i casi. Per il periodo 1996-2000 essi è stato valutato in 4-4,5 punti di Pil. Il problema quindi non è tecnico ma politico.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.