Le alleanze romane e le sfide dei dem
Partito democratico alla mercé di Conte e dei grillini
Lo scacco subito da Zingaretti e Letta nella gestione delle alleanze romane è di quelli che non indicano un semplice incidente tattico. E’ saltato tutto lo schema con il quale i democratici hanno sinora pensato di addomesticare l’animale dell’antipolitica. Dovrebbe intervenire perciò una riflessione strategica sui limiti della interpretazione della natura del M5S. Questa messa a punto sul piano dei concetti è però difficile che intervenga anche perché il Pd non possiede un autonomo pensiero politico, va a rimorchio di quello degli alleati impossibili e dinanzi alle bizze assai prevedibili di Conte ne subisce lo scotto inevitabile.
La sola convergenza che si è verificata tra i due promessi alleati è quella sorta a sostegno del cantante che al concertone denunciava l’esistenza di un sistema di censura e quindi protestava esibendosi in diretta Tv con il cappellino della Nike (ma è solo pubblicità progresso). In difesa dell’artista con registratore sempre acceso per carpire la voce del sistema, sono accorsi in tutta velocità Conte (“io sto con Fedez”) e Letta (“aspetto le scuse della Rai”). Il livello della leadership odierna purtroppo è questo ed è un bene che il ceto politico di siffatta statura rimanga ancorato ai livelli canori perché altrimenti i socialisti doc come Letta, Sassoli, Gentiloni si esibiscono in grottesche prove di dialogo con Di Maio, non più amico del ramo insurrezionalista dei gilet gialli e quindi ritenuto ormai abile a indossare la casacca dei socialisti europei.
La coalizione Pd-M5S non trova sbocchi politici efficaci anche perché i grillini sono in una fase di decomposizione che si illudono di gestire con il regalo dei galloni all’anti-leader per eccellenza, a un Conte avviato su un meritato oblio, e il Pd versa in una permanente condizione di confusione ideale che impedisce la maturazione di una minimale cultura politica. Impressiona il linguaggio politico con cui si è presentato il nuovo segretario Letta capace con le sue sviolinate di far diventare Zingaretti un politico di levatura e da rimpiangere.
Il leader venuto da Parigi crede di delineare una offerta politica avvincente sulla base del tracciamento di quella che chiama empatia con i grillini. “Dobbiamo costruire una coalizione a partire dall’empatia tra di noi, una coalizione di persone che si stimano e si vogliono bene”. Che delizia, nel pensiero politico di Letta la verniciatura pseudotecnocratica si sbriciola per intero e il bene vince contro l’odio, l’empatia trionfa contro l’invidia, il rancore. Comprensibile è la tristezza che avvolge il leader democratico dinanzi alle prove contiane di non volergli troppo bene (“Virginia sta dando un nuovo volto alla città”).
Dopo il cacciavite che non ha prodotto un granché oltre un questionario barboso rivolto ai circoli da tempo chiusi, il leader del Pd scopre la poesia per siglare un patto di coalizione e far dimenticare chi lo ha preceduto che, fallito il Conte ter, si è dato alle gambe con l’urlo “Vergogna”. La coalizione arranca nelle alleanze per le amministrative ma in compenso Letta procede spedito nella narrazione in versi dei legami che porteranno alla costruzione di una comune casa. “Elly, i’ vorrei che tu Giuseppe ed io”. Peccato che questo leggiadro auspicio del segretario poeta, di ritrovarsi “messi in un vasel” capace di resistere “ad ogni vento”, venga bruscamente smentito dall’avvocato del popolo che all’ombra di Zingaretti preferisce la grande statista capitolina Raggi (“da un po’ di tempo si iniziano a vedere i chiari frutti di questo intenso lavoro e i romani se ne stanno rendendo conto ogni giorno di più”).
Che delusione per Letta, che in Francia dalle sudate carte aveva intuito che la politica è solo scambio amoroso e sentimento di empatia, apprendere che i grillini fanno storie, ricattano e impongono al suo candidato ideale fughe precipitose. La poetica dell’empatia e la metafora del cacciavite spingono Letta a proposte davvero edificanti: “vorrei che ci prendessimo per mano, penso che la gente percepirebbe che siamo tre persone che si stimano a vicenda, che vogliono costruire insieme qualcosa per il futuro”. Alla ruspa padana che tutto d’impeto demolisce, Letta preferisce il cantico dell’amore che dovrebbe finalmente sostituire le obsolete categorie novecentesche della politica.
Weber diceva che la politica ha in sé il tragico? Un semplice dilettante sociologo che ha osato riscontrare “un conflitto insanabile tra il demone della politica e il dio dell’amore”. Schmitt ha sospettato che il canone del politico potesse poggiare sul concetto di nemico? Un principiante teorico della dottrina della costituzione che non conosce l’istituto dell’empatia. E quindi contro il ‘900 infantile e realista che rincorre “le potenze diaboliche della politica” Letta prende estetico coraggio e azzarda le sue nuove categorie del politico: empatia, mani che si vogliono bene. Altro che tramonto delle ideologie. La nuova ecole parisienne suggerisce che la Grande politica può essere ritrovata, non a colpi di lotta e di politica, ma di empatia con le mani di Enrico, Antonio e Elly che si stringono perché si vogliono tanto bene. E tutto questo “ragionar sempre d’amore” consiglia a Letta di aspettare che loro tre prima del voto siano “presi per incantamento”.
Dinanzi al prosaico colpo inferto dall’avvocato del popolo al sogno dolce dell’empatia (“Dispiace che a Roma non si siano realizzate le condizioni per pianificare con il Pd una campagna elettorale in stretta sinergia”), il Pd resta proprio nudo con il cacciavite e la poesia. E’ difficile dire se per Letta più brusco sia stato il risveglio dopo il campanello di Renzi o dopo il ricatto che l’avvocato senza popolo gli ha cinicamente esibito in faccia negando con lui ogni “sinergia”.
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