Parla il segretario generale dell'Uil
Intervista a Pierpaolo Bombardieri: “Giusto lo stop ai licenziamenti, non esiste solo Confindustria”
John M. Keynes, Joseph Stiglitz, Eleanor Roosevelt, Thomas Jefferson. Facile immaginarli nel pantheon di riferimento di un presidente americano come Joe Biden o di un deputato democratico degli Stati Uniti. Più sorprendente ritrovarli nei discorsi di un sindacalista di origini calabresi che da poco ha raggiunto il vertice della Uil. Pierpaolo Bombardieri, nato a Marina di Gioiosa Ionica nel ’63, laureato in scienze politiche a Messina, oggi segretario generale dell’Unione italiana del lavoro, conferma: «La Teoria generale di J.M. Keynes è sempre sul mio tavolo: l’autoregolamentazione del mercato non basta, l’economia deve tener conto della socialità. E la pandemia aiuta ad allargarsi verso gli orizzonti disegnati da questi autori».
Segretario Bombardieri, la fine del blocco dei licenziamenti metterà a rischio 500 mila posti di lavoro. Qual è la posizione della Uil in proposito?
I dati della Banca d’Italia dicono che, nei prossimi mesi, il rischio licenziamento toccherà 570 mila lavoratori. A causa della pandemia abbiamo già perso 500mila posti di lavoro, soprattutto tra i giovani e le donne. Ma la platea di lavoratori a rischio arriva a 2 milioni di unità. Da tempo chiediamo attenzione sul lavoro e chiediamo di ripartire senza lasciare nessuno indietro. Bisogna offrire strumenti a chi rischia la disoccupazione. Serve la riforma degli ammortizzatori sociali e il varo di politiche attive del lavoro. A mio avviso, la formazione dovrebbe essere addirittura obbligatoria per chi va in cassa integrazione o accede alla Naspi.
Per questo chiedete di spostare nel tempo il blocco dei licenziamenti?
Esattamente. Prolungare fino a ottobre avrebbe reso tutto meno traumatico. La crisi c’è ancora. Ricordiamo poi che, nel corso dell’anno, la cassa Covid non ha pesato sulle aziende: il programma Sure dell’Unione europea ha messo a disposizione 24 miliardi che le aziende non hanno pagato di tasca propria. Finora, le risorse impegnate dal governo sono andate per il 70% direttamente alle aziende colpite e ai lavoratori autonomi, senza alcuna condizione e senza criteri selettivi. Perché, viceversa, i licenziamenti dovrebbero essere selettivi? Per ricostruire il paese serve anche la coesione sociale.
Come ha agito sul punto il ministro Orlando? L’ultima decisione del governo vi convince?
La prima ipotesi avanzata dal ministro Orlando era di mediazione tra i sindacati e Confindustria. La scelta di Draghi è, invece, la scelta di Confindustria. Che ha usato il proprio quotidiano e dei toni eccessivi per difendere le proprie posizioni. Le rappresentanze della piccola e media industria, degli artigiani e delle cooperative non hanno la stessa posizione della grande industria. Con loro vogliamo allargare il blocco fino a dicembre. Domando: vale di più la logica di chi grida più forte o di chi rischia il proprio posto di lavoro?
Ma con il prolungamento del blocco dei licenziamenti non c’è il rischio di irrigidire il mercato del lavoro, proteggere i lavoratori meglio garantiti e mantenere barriere all’ingresso dei lavoratori più giovani e delle donne?
Il tentativo di contrapporre i garantiti agli autonomi è strumentale. Se abbassi le tutele di chi le ha, non aumenti le tutele di chi non le ha. La riforma degli ammortizzatori sociali serve proprio a questo. È stato fatto tanto per le partite Iva. Bisogna dare un segnale di solidarietà per chi non ha garanzie. Sul piano assicurativo, se tu versi, hai un salvadanaio per i momenti di crisi. Dobbiamo creare queste condizioni anche per chi ancora non le ha. Da un lato, le aziende pagano per garantire gli ammortizzatori. Ma se non c’è un fondo proprio deve intervenire lo stato con la fiscalità generale.
Come valuta il reddito di cittadinanza? Dalle analisi più recenti emerge un discreto successo sul fronte della lotta alla povertà, ma un sostanziale fallimento sul piano delle politiche attive del lavoro. E che fine faranno i navigator?
Noi lo abbiamo detto fin dall’inizio: il reddito di cittadinanza serve per limitare la povertà. È un reddito di emergenza per chi non riesce a entrare nel mercato del lavoro. Le politiche attive del lavoro sono un’altra cosa. Perché dobbiamo incaricare dell’orientamento solo i privati? Serve un bilanciamento con il sistema pubblico. Oggi l’Italia ha la percentuale più bassa di investimenti e di operatori dedicati all’orientamento. Serve un bilanciamento tra orientamento delle aziende e la costruzione dei curricula dei lavoratori. I navigator potranno essere delle figure utili ma ci vuole un disegno organico per le politiche attive e i centri di orientamento.
Per molti Quota 100 è stata una misura iniqua che non ha affatto liberato posti di lavoro per i più giovani. In sostanza la solita misura che privilegia coloro che sono già inseriti nel mondo del lavoro e che danneggia chi ne resta fuori. Inoltre graverà come debito sul futuro delle nuove generazioni. Lei che ne pensa?
Partiamo da due premesse. La prima: la riforma Fornero ha sbagliato l’impostazione considerando i lavoratori tutti allo stesso modo. La seconda: quando parliamo di pensioni mettiamo insieme previdenza e assistenza, ma così dimentichiamo che il 12% di previdenza è in linea con gli altri paesi europei. La verità è che noi abbiamo bisogno di riforme durature nel tempo. Se le cambi ogni volta creiamo solo incertezza. Quota 100 è stata una risposta parziale. Noi proponiamo la possibilità di uscire gradatamente a partire dai 62 anni, cominciando dai lavori più gravosi e usuranti. Ovviamente serve una valutazione tecnica per capire quali sono questi lavori. E poi bisogna tenere conto di altre tre questioni.
Quali?
Il sistema della previdenza è ancora basato sul lavoro stabile. Ma per i giovani non è più così. Ecco perché potrebbe essere utile calcolare dei contributi figurativi per coprire i lavoratori intermittenti. In secondo luogo, a tutela delle donne, bisogna considerare anche la attività di cura e di lavoro familiare. Infine, bisognerebbe favorire la previdenza integrativa con l’aggiunta di fondi per costruire il monte pensioni. Per farlo bisogna pensare a agevolazioni fiscali per i fondi integrativi. Su questi invece c’è stato un aumento delle tasse e una disattenzione della politica.
Di recente, il segretario del Pd Enrico Letta ha proposto di tassare la successione dei grandi patrimoni per creare una dote di 10 mila euro per i giovani. Lei che ne pensa?
Non credo che le misure spot aiutino. Bisogna affrontare il tema fiscale in modo organico. Noi siamo sempre stati contro la patrimoniale che colpisce solo chi dichiara. Dobbiamo ricordare che, secondo la Corte dei Conti, sul nostro paese pesa un’evasione fiscale pari a 110 miliardi: sono la metà del Next Generation Eu. L’Italia dovrebbe affrontare il tema della legalità. Perfino Joe Biden, nel paese che è la patria del liberismo economico, pone oggi il problema della tassazione di quelle grandi imprese che spostano i loro capitali nei paradisi fiscali. Lo stesso dice il Fondo monetario internazionale. Serve dunque un livello minimo di tassazione globale. Al G20 che si svolgerà tra qualche giorno anche Mario Draghi svolgerà un ruolo e noi chiederemo che sostenga questa soluzione.
E poi?
Vediamo con favore l’ipotesi di una extratassa sugli extraprofitti che alcune multinazionali – le imprese farmaceutiche, le aziende digitali, le produttrici di mascherine e prodotti medicali – hanno realizzato grazie alla pandemia. La stessa proposta fece J. M. Keynes all’indomani della guerra mondiale in vista della ricostruzione. Con la pandemia ci troviamo in condizioni assai simili. Proprio nel momento in cui Draghi si appresta alla riforma del fisco, occorre un ragionamento generale per affrontare il tema complessivo delle diseguaglianze attraverso strumenti di redistribuzione. Ricordando che oggi l’Irpef grava sulle spalle dei lavoratori dipendenti e dei pensionati.
A proposito di politiche fiscali. Il Ngeu sembra proprio un abbozzo di politica fiscale comune dell’Ue. È la strada giusta?
Assolutamente sì. L’unità fiscale europea è necessaria per creare le condizioni della solidarietà oltre che dell’economia. Il Ces, la confederazione dei sindacati europei è impegnata su questa linea. Ecco perché diciamo no ai trattamenti fiscali differenti (e ai paradisi fiscali) e diciamo sì al bilancio comune europeo. Per costruirlo si può partire dalla tassazione delle multinazionali del web. Amazon ha fatto 40 miliardi di utili in Europa senza pagare un euro di tasse: perfino Jeff Bezos ammette che potrebbe pagare qualcosa in più. L’emissione di bond europei mi sembra una strada maestra. Basti pensare allo scetticismo che circondava il programma Sure: invece ha raccolto un ampio gradimento anche da parte del mondo finanziario. In questo modo si potrebbe fare un Ngeu ogni anno: il “debito buono” per un nuovo orizzonte europeo.
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