È un classico sillogismo. Gli errori, in politica, prima o poi si pagano; il blocco dei licenziamenti è stato un errore, le proroghe hanno dato corso a un perseverare diabolico; quell’errore oggi è divenuto un casus belli all’interno della maggioranza e con le parti sociali. E quando un Paese, unico al mondo, si infila, incautamente ma volontariamente, in una trappola, ben presto si accorge di non poterne uscire indenne.

Se vogliamo cercare delle attenuanti generiche, la prima misura di blocco (all’insegna della promessa “nessuno perderà il lavoro”) può trovare una spiegazione come corollario di un’analisi della pandemia – allora accettata come dogma – secondo la quale sarebbero bastati pochi mesi di apnea dell’apparato produttivo e dei servizi perché tutto andasse bene. In vista di una tale prospettiva perché non fare bella figura vietando di licenziare? Poi tutto si aggiusterà da solo. Non è stato così. Il governo Conte 2 si è rivelato un ostaggio politico della Cgil, assicurandosi in questo modo una sostanziale tregua sul versante sindacale (e un appoggio esplicito nel momento in cui l’avvocato del popolo inseguiva l’obiettivo del non c’è due senza tre). Per mesi la sola preoccupazione delle confederazioni – ribadita o trasmessa al governo a giorni alterni – ha consistito nella proroga del combinato disposto tra blocco dei licenziamenti e della cassa integrazione da covid-19. Landini, poi, aveva ridotto il ministro Nunzia Catalfo nella condizione di prigioniera politica, pronta a eseguire ogni raccomandazione proveniente da Corso d’Italia.

Caduto il governo Conte 2, a febbraio è arrivato Mario Draghi, il quale si è trovato ad affrontare il lascito del precedente esecutivo anche per quanto riguardava il trascinamento del blocco. Nessuno si aspettava che alla fine di marzo (come era previsto) venisse davvero a scadenza il divieto dei licenziamenti, ma almeno che si avviassero quelle modifiche che erano circolate nel dibattito sotto il titolo di “blocco selettivo” o di qualche altra definizione simile. Invece, anche super Mario volle pagare l’obolo al blocco, posticipandolo, a seconda della tipologia delle aziende, al 1° luglio ovvero al 1° novembre, con annessa proroga della cig da covid-19. Nei giorni scorsi con un blitz – pare anche a insaputa del governo, ma i passaggi non sono chiari – il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha introdotto due novità: 1) se un’impresa avesse chiesto la cig Covid-19 entro fine giugno, si vedeva prorogare il blocco dei licenziamenti fino al 28 agosto; 2) dal 1° luglio, poi, se un’impresa avesse utilizzato la cassa integrazione ordinaria non avrebbe dovuto pagare le addizionali ma non avrebbe potuto licenziare.

A quel punto, “dagli antri muscosi e dai fori cadenti” in cui è stata rinchiusa, la Confindustria ha “battuto un colpo” accusando di inganno il ministro Orlando, con qualche buon motivo; infatti, con un emendamento inserito nel decreto Sostegni bis il titolare del Lavoro mandava a gambe all’aria, in un punto molto delicato, quanto previsto nel 1° decreto nelle stesse ore in cui esso veniva convertito e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale (l’ultimo passaggio per la sua entrata in vigore). Caos, fibrillazioni nella maggioranza: il Pd copre il suo ministro, insieme a Leu e al M5s; mentre le forze di centro e destra si sentono legate al carro della Cgil. Poi – in qualche modo – è intervenuta una mediazione attribuita al premier. Fino al 30 giugno, hanno spiegato fonti di Palazzo Chigi, proseguono la cassa integrazione Covid gratuita e il divieto di licenziamento per tutte le aziende, sia quelle che usano la cig sia quelle che non la usano. L’industria e l’edilizia tornano alla normalità dal 1°luglio, a meno che non facciano ricorso alla cassa integrazione ordinaria approfittando dello sconto sulle addizionali, ma, nel contempo, rinunciando, per tutta la durata, alla possibilità di licenziare. Per farla breve, per poter recuperare la facoltà di ridefinire gli organici secondo le esigenze produttive, le imprese industriali ed edili, dal 1° luglio potranno, ove del caso, utilizzare la cig ordinaria solo pagandosela e rinunciando a ottenerla con lo sconto. Non cambia nulla rispetto a quanto già previsto per le aziende che hanno a disposizione solo la cig da covid.

Per loro il divieto di licenziamento resta prorogato a fine ottobre mentre la cassa in deroga rimane a disposizione per tutto l’anno. La mediazione ha gettato lo scompiglio nel Campo di Agramante dei sindacati. Ma vediamo di chiarire come stanno veramente le cose. Cominciamo dai numeri, perché in tanti non li dicono ma “li danno” nel vero senso della parola. Saranno 600mila i licenziati o addirittura un milione? Un segretario confederale, ultimo arrivato, si è spinto fino a due milioni. Intanto un milione di posti di lavoro si sono persi nel 2020 in particolare a causa delle mancate assunzioni, in particolare di giovani e di donne: una circostanza su cui ha pesato anche la pretesa di congelare l’apparato produttivo attraverso il divieto di licenziare (c’è bisogno di spiegarne i motivi?). Naturalmente i talk show si sono dedicati acriticamente a raccontare il nuovo flagello dei licenziamenti con toni adatti al genocidio degli armeni. Sparare a casaccio come si sta facendo dovrebbe prefigurare dei veri e propri reati sanzionati dal codice penale agli articoli 656, 658, 661 (notizie false e tendenziose, procurato allarme alle autorità, abuso della credulità popolare). È necessario, allora, fornire innanzi tutto una spiegazione corretta della normativa.

Le imprese, che dal 1° luglio hanno esigenze di adeguare gli organici e sono abilitate (alle condizioni date) ad avviare una procedura per il ricorso a licenziamenti per riduzione di personale sono obbligate a confrontarsi con le organizzazioni sindacali e le autorità pubbliche prima di procedere. Si aprono quindi spazi di negoziato con la messa in campo di strumenti che attutiscano o rimuovano gli effetti sociali dei provvedimenti, sul versante degli ammortizzatori sociali previsti dopo la cessazione del rapporto di lavoro (Naspi), sia su quello degli scivoli verso il pensionamento o della ricerca assistita (assegno di ricollocazione e riqualificazione professionale tramite i centri per l’impiego e le agenzie del lavoro), di un nuovo impiego. Quali sono i settori più a rischio? Gli stessi che hanno pagato il prezzo più elevato ed assurdo durante i regimi di chiusura, ovvero i servizi. Ma in questo comparto – come peraltro chiedevano i sindacati – il blocco prosegue fino a ottobre e la cig da covid-19 per tutto l’anno in corso. Giustamente, perché nei servizi – senza il proseguimento del blocco – vi sarebbero a partire da luglio molti licenziamenti individuali soprattutto in piccole aziende ed attività economiche di modesta dimensione. Poi non vi sono le esigenze produttive ed economiche per immaginare tanti licenziamenti nell’industria e nell’edilizia.

In primo luogo i dati della cig di aprile rispetto a quelli dello stesso mese dell’anno precedente. L’industria e l’edilizia – dopo il primo lockdown – hanno sempre lavorato. Si vede anche dalle ore autorizzate di cig. Nell’aprile 2020 le ore sono state 712 milioni per quanto riguarda la cassa ordinaria; 12,4milioni la cigs; 40,6 milioni la cig in deroga; 82,7 milioni i fondi di solidarietà. Certo il picco lo si è avuto nei mesi successivi. Ma è interessante il confronto con le ore autorizzate nell’aprile di quest’anno: cig ordinaria 50milioni; cigs 7,5 milioni; cig in deroga 64,7 milioni; fondi di solidarietà 81,5 milioni. Le indicazioni sono molto significative: vi è un crollo della cig di cui si servono in prevalenza l’industria e l’edilizia, mentre vi è un incremento degli interventi maggiormente operanti nei settori scoperti (appunto la cig in deroga e i fondi di solidarietà). Comunque in un anno (da aprile ad aprile) si è passati da oltre 800 milioni di ore autorizzate a poco più di 200 milioni. È altresì noto che alle ore autorizzate occorre “fare la tara”, perché quelle effettivamente impiegate sono in numero molto inferiore.

C’è in giro tanta bramosia di licenziare? È stato altresì reso noto uno studio a cui hanno concorso la Banca d’Italia e il Ministero del Lavoro. Nel testo viene adottato il seguente criterio (discutibile, ma documentato e basato su dati): si mette a confronto il numero di licenziamenti effettuati nel 2019 (prima della crisi) con quello del 2020, allo scopo di ottenere una stima attendibile di quanti possibili licenziati nel 2020 sono stati salvati dal blocco. Da quando il divieto è entrato in vigore – è scritto – il numero medio mensile dei licenziamenti complessivi si è più che dimezzato, scendendo a circa 20.000, 2 ogni 1.000 lavoratori a tempo indeterminato. I rapporti di lavoro che si sarebbero interrotti indipendentemente dalla pandemia e che la misura di blocco ha preservato sono circa 240.000 nel 2020 tra le imprese del comparto privato non agricolo e ulteriori 120.000 nel 2021.

A questi si aggiungono le cessazioni involontarie nelle attività sportive, ricreative e nei servizi alla persona (11.000 nel 2020 e 6.000 nel 2021).Nei diversi settori la flessione dei licenziamenti riflette fattori specifici. Il comparto delle costruzioni è tradizionalmente caratterizzato da un elevato turnover: il crollo del tasso di licenziamento (da 1,5 a 0,5 ogni 1.000 occupati a tempo indeterminato; ha pertanto prodotto un calo di oltre 90.000 licenziamenti, quasi un settimo dei dipendenti a tempo indeterminato prima della pandemia. Viceversa, nell’industria in senso stretto, dove i licenziamenti mensili si attestavano su livelli modesti già prima dell’epidemia, si stimano circa 75.000 licenziamenti bloccati che si sarebbero manifestati anche in assenza della pandemia a fronte di una platea di oltre 3 milioni di lavoratori permanenti. Nel commercio e soprattutto nelle attività connesse al turismo (ma qui si entra nei settori in larga misura coperti dalla proroga a tutto ottobre) il ricorso al lavoro temporaneo è particolarmente elevato: il numero di licenziamenti bloccati che si sarebbero verificati in assenza della pandemia risulta pertanto relativamente contenuto (poco meno di 100.000 in tutto).

Tuttavia nel turismo potrebbero essere numerosi i licenziamenti dovuti alla crisi: già nei primi mesi del 2021 il tasso di licenziamento è leggermente aumentato, attestandosi intorno a 3 su 1.000 dipendenti a tempo indeterminato, da 2 su 1.000 a fine 2020. Oltre alla smentita dei dati si possono fare tanti ragionamenti di buon senso. Come può sentirsi tutelato un lavoratore da tempo in cig a zero ore, ben consapevole che in azienda il suo posto non c’è più perché divorato dai processi di riorganizzazione imposti dagli effetti delle misure anti-pandemia? Che senso avrebbe mantener in vita rapporti di lavoro spenti? Molto meglio impegnare il reddito sostitutivo a carico degli ammortizzatori sociali – come assegno di ricollocazione – ai fini di una riconversione professionale e della ricerca di un altro posto di lavoro.

Certo le condizioni sono difficili, ma il mercato del lavoro non è spento. Ne fornisce testimonianza lo studio citato. Nel 2021 la dinamica nell’industria, pur con ampie eterogeneità tra i diversi comparti è rimasta complessivamente in linea con quella osservata nel 2019: nei primi quattro mesi dell’anno sono state create circa 100.000 posizioni di lavoro, come due anni prima. Il rallentamento osservato da fine febbraio è invece interamente imputabile ai servizi privati dove la creazione di posti di lavoro è rimasta su valori sostanzialmente nulli. È una nuova conferma della divaricazione nel mercato del lavoro conseguente alle differenti politiche di restrizione nei vari settori. Poi esiste l’annoso e irrisolto problema dell’avvio delle politiche attive. Bisognerà prima o poi venire a capo di una singolare propensione del nostro Paese a combinare insieme persone che cercano un impiego e aziende che non trovano chi assumere, anche quando hanno la necessità di lavoro non particolarmente qualificato.

Non mancano soltanto migliaia di tecnici in uscita dalle scuole professionali, ma – come si è letto in questi giorni – vi sono località in cui si lamenta la difficoltà a trovare dei camerieri (si vede che le attività della ristorazione e dintorni hanno resistito a mesi di chiusura che aspettano di ripartire). A maggio il Rapporto Camere di Commercio Excelesior focalizza l’attenzione sulle entrate programmate nel mese in corso , con uno sguardo sulle tendenze occupazionali per il periodo maggio – luglio 2021. Ovviamente è bene precisare che non si tratta necessariamente di NUOVI posti di lavoro, né che le assunzioni siano tutte a tempo interminato (il 23% contro il 51% a termine e 12% in somministrazione). E che hanno espresso l’intenzione di assumere solo il 12% delle aziende contattate. Ma i numeri sono egualmente interessanti. A maggio sono programmate circa 390mila assunzioni, di cui 108mila sono giovani under29 anni. Da maggio a luglio si arriva a circa 1,3 milioni di entrate programmate, ma si lamenta una difficoltà di reperimento pari al 31% del fabbisogno che sale ben oltre il 40% nel caso di personale particolarmente qualificato.