Torneremo negli uffici, ma non tutti. Anzi, più probabilmente, non tutte. Numerose aziende stanno riorganizzando internamente le modalità di lavoro in modo da ridisegnarne tempi e luoghi. In particolare, stabilendo in quale misura utilizzare quello che abbiamo definito smartworking (anche se sarebbe più corretto parlare di homeworking). C’è il rischio che questa diventi una misura “per categorie”, ovvero specificamente rivolta alle lavoratrici (anziché ai lavoratori).

Non è un segreto: nel nostro paese tuttora vige una forte polarizzazione dei ruoli di genere. Una precisa suddivisione dei compiti, sia all’interno della famiglia che sul mercato del lavoro. Una divisione basata sul genere. I dati della International Labour Organization, prima della pandemia, mostravano che ogni donna italiana spendeva oltre 5 ore al giorno in attività di cura non retribuita: per esempio, portando figlie e figli a scuola, preparando i pasti, occupandosi della casa. A seguito del lockdown, il carico delle attività di cura non retribuite fornite dalle donne si è ulteriormente aggravato: i dati stimano un ulteriore incremento di circa 15 ore settimanali pro capite. Di conseguenza, sempre più donne sono state costrette a lasciare il mercato del lavoro (eclatante il dato di dicembre 2020: su 101mila posti lasciati, 99mila erano di donne). Non sono dati isolati. Già nel 2019, il 73% delle dimissioni sono state presentate dalle lavoratrici, che nell’80% dei casi hanno lasciato il proprio lavoro perché obbligate a farsi totalmente carico delle attività di cura non retribuita all’interno della propria famiglia.

In questa fase di ridefinizione delle modalità di lavoro, è evidente il rischio che le lavoratrici si trovino “costrette” alla scelta dello smartworking e che su di loro ricada un peso ancora maggiore derivante dalla combinazione delle attività di cura non retribuita con le mansioni relative alle attività retribuite. È già avvenuto così per il part-time: nella maggior parte dei casi involontario e richiesto dalle donne perché si fanno carico pressoché esclusivo delle attività di cura. A questo ampio tema è dedicato il rapporto “Smartworking: opportunità e rischi per il lavoro femminile”, presentato venerdì scorso nel corso dell’evento organizzato dalla School of Gender Economics dell’Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza (ed elaborato, oltre che da chi scrive, da Nicoletta Maria Capodici). Dallo studio incentrato sulle lavoratrici italiane in smartworking, emergono quattro elementi fondamentali.

In primo luogo, un processo di sfaldamento di confini che, prima del Covid, sembravano consolidati. Se prima, infatti, erano ben definiti i tempi e gli spazi di cura e di lavoro, ora che si lavora da casa il 60% delle rispondenti ha sperimentato un aggravio di compiti e tempi di lavoro. Inoltre, quasi 1 donna su 2 tra quelle che lavorano in smartworking dichiara di essere costretta a lavorare in posizioni e luoghi sempre diversi all’interno della propria abitazione.

In secondo luogo, l’incremento parallelo delle attività di cura non retribuita e del tempo a esse dedicato. Aggravato dal fatto che il 75% delle intervistate dichiara di farsi carico esclusivo di tutte le attività di cura (dati in linea con le rilevazioni sia nazionali che internazionali). Di conseguenza, sovraccariche a causa della combinazione delle attività lavorative e di quelle di cura, il 60% delle lavoratrici sperimenta sempre maggiori difficoltà nel separare il tempo lavorativo e di cura dal tempo libero. A venire meno è il tempo per sé, in tutte le sue forme (ad esempio, il tempo dedicato alla cura di sé, quello per il riposo, quello per occuparsi dei propri hobby o dello sport, ma anche quello – tuttavia necessario – per staccare dall’attività di smartworking al computer).

E arriviamo al quarto elemento: oltre l’80% delle lavoratrici in smartworking considera tale modalità di lavoro particolarmente stressante. Ciononostante, non potendo più fare affidamento sul welfare famigliare (prima della pandemia, affidato ai nonni e alle nonne) e in assenza di servizi di welfare pubblici universali, oltre il 75% di loro sarebbe disposto a continuare a lavorare da casa anche al termine dell’attuale emergenza sanitaria. Una scelta obbligata, in un sistema che attribuisce alle donne (che siano lavoratrici o meno) l’intero carico delle attività di cura non retribuita.

E allora è necessario ripensare la cura, a partire da una nuova consapevolezza: siamo tutte e tutti sia beneficiari che prestatori di cura, nelle nostre vite quotidiane. Sulla cura si basa la stessa riproduzione sociale. È indispensabile rimetterla al centro degli investimenti necessari al futuro del paese, anche in ragione dei dati che dimostrano come sia un settore ad alto potenziale moltiplicativo, soprattutto occupazionale. Con un 2020 che ha visto una contrazione del Pil pari all’8,9% – e lo sblocco dei licenziamenti all’orizzonte – è innegabile che il nostro Paese ne abbia profondamente bisogno.