Prima del Coronavirus solo il 2 per cento dei lavoratori dipendenti in Italia era in smart working . Il 29% nel Regno Unito, il 16,6 % in Francia. Poi con il Coronavirus quella telematica è diventata l’unica modalità di lavoro possibile in alcuni settori. E nonostante l’assenza della banda ultra larga in molte parti del Paese e l’analfabetismo digitale, le persone in smart working sono diventate milioni in poche settimane. In questo tempo di pandemia con lo smart working la fatica per le donne raddoppia e il lavoro “produttivo” si somma al lavoro di cura. Non condiviso e senza servizi pubblici o privati di supporto, dalla baby sitter, agli asili, alla scuola, alle badanti. Ma lo smart working potrebbe rappresentare per il futuro una leva positiva per il cambiamento, per due ragioni.

Perché può innescare una svolta culturale appunto nella condivisione del lavoro di cura e nel superamento degli stereotipi di genere: lo smart working può essere una modalità di lavoro scelta, nuova e utile, per donne e uomini e per la collettività. Considerando per esempio che la misurazione dell’impatto dell’attuale smart working sulle emissioni di CO2 nell’aria registra una riduzione di 60 tonnellate (dati piattaforma Jojob). E perché corrisponde ad un modello di organizzazione del lavoro fondato sul raggiungimento dei risultati piuttosto che sul controllo e la presenza fisica, che ha sempre penalizzato le donne anche dal punto di vista salariale. Sono molto divertenti, e girano veloci sui social, “meme” sui lavoratori e lavoratrici in smart working modello Tempi moderni di Charlie Chaplin. Ma è proprio così per forza?

Allora parliamone. Anche perché l’innovazione digitale aiuterà il cambiamento necessario di quel modello produttivo la cui fragilità è stata scoperchiata e per sempre dal Covid. Esiste una cornice legislativa dello smart working contenuta nello Statuto del lavoro autonomo del 2017. Quasi oscurata al suo interno. E questo già dice tutto. C’è stata ostilità alla normazione di questa modalità di lavoro. Nella cultura del lavoro la dimensione collettiva è stata quella dei diritti e della dignità. In particolare per le donne il lavoro ha rappresentato non solo l’emancipazione ma anche la conquista dell’autonomia e libertà. Questo insieme di preoccupazioni, la diffidenza da parte delle imprese per la rivoluzione organizzativa necessaria e l’analfabetismo digitale diffuso, hanno rallentato la contrattazione di regole e diritti. Solo di recente i contratti collettivi hanno cominciato ad occuparsene.

Quindi il primo problema è la definizione contrattuale della griglia dei diritti dello smart working a partire dal diritto alla disconnessione e dalla volontarietà. E senza dimenticare il salario. La sindaca di Roma ha comunicato a chi è in smart working, in questa fase peraltro obbligatorio, la non erogazione dei ticket pasto. Che effettivamente sono legati alla presenza ma rappresentano da tempo una integrazione salariale spendibile non solo come buono pasto per retribuzioni non certo alte. Diciamo anche che in tempo di pandemia si è chiamato smart working il telelavoro. Lo smart working prevederebbe invece un tempo di svolgimento del lavoro a casa e un tempo fuori casa. Consentendo cioè flessibilità per le persone e flessibilità dei sistemi organizzativi delle imprese in luogo di sistemi rigidi e autoritari.

Nel tempo in cui ciò è possibile perché il contenuto del lavoro per il 70 per cento consiste nel trasferimento di informazioni. Per il 30 per cento invece si tratta di lavoro non sostituibile tecnologicamente: dalle professioni manuali a quelle sanitarie ai lavori di cura. Quei lavori essenziali che hanno continuato a svolgersi in questi mesi di lockdown, svolti prevalentemente da donne e non riconosciuti socialmente. In secondo luogo il rischio che lo smart working faccia fare passi indietro alle donne c’è. Anche se non è questo il tempo in cui lo si può valutare compiutamente.

Un tempo sospeso di emergenza in cui alle madri e ai padri in smart working (e ai bambini e ragazzi) è mancato il supporto anche educativo delle scuole, così come delle baby sitter e dei servizi pubblici in generale. Ma sicuramente c’è. E parrebbe che più del 70 per cento di chi è rientrato al lavoro il 4 maggio sia di genere maschile. Perché gli stereotipi culturali sui ruoli di genere sono ben solidi, non li crea lo smart working. Ma li può rafforzare o indebolire a seconda delle politiche pubbliche culturali e sociali. Importante è a questo proposito tenere insieme la ripresa delle attività produttive almeno con la progettazione in tempi certi della riapertura delle scuole. Ma anche il riconoscimento del bonus baby sitting pure a chi è in smart working.

D‘altra parte sono gli stessi stereotipi per i quali nella organizzazione del lavoro tradizionale le donne guadagnano di meno perché parte del salario è legato alla presenza, così come il riconoscimento del lavoro e gli avanzamenti di carriera. Quindi soprattutto parliamone. Parliamo del lavoro, del futuro per le donne e per gli uomini, parliamo della nostra vita, parliamo del cambiamento.