L’isolamento, per uno di quei paradossi a cui ci sta abituando la pandemia, sembra aver spalancato le porte di casa, proprio mentre le chiudeva, aver rivelato il disagio, le disuguaglianze, la violenza e i rapporti di potere che si danno da sempre negli interni di famiglia, nel momento stesso in cui venivano raccomandati come luoghi di sicurezza e protezione. Il virus, nella sua indifferente invasività, è come se avesse travolto gli ultimi puntelli che tenevano separati privato e pubblico, demolito la corazza che ancora rende estranei il cittadino e la persona. Tutto ciò che è stato ritenuto per secoli “non politico” – esperienze umane universali, come la nascita, la morte, l’infanzia, la vecchiaia, la malattia, e soprattutto la relazione fra i sessi, l’ambigua complementarietà dei i ruoli di genere, ha mostrato di essere il fondamento, minaccioso e non più trascurabile, di un ordine economico, sessuale e politico che, cancellandolo, ha creduto di farne una riserva senza limiti.

Tali sono stati per la civiltà finora conosciuta, sia pure in forme diverse, il corpo, le passioni che lo attraversano, la natura, le altre specie, e soprattutto la donna, considerata per la sua stessa essenza la loro incarnazione. La “normalità”, che cercheranno ancora di imporci, è già tramontata là dove ha avuto inizio: sulla soglia di casa, su quel confine che ha visto l’essere umano spaccarsi in due, confondere l’uscita dalla animalità con il diverso destino dell’uomo e della donna, fare del corpo che l’ha generato la garanzia, potente e svilita, del suo privilegio e del suo impegno civile. Nel momento in cui è la vita stessa a essere minacciata, e per di più da un nemico invisibile, che può arrivare dalla mano o dall’alito del tuo vicino, tutti i poteri, i saperi, le istituzioni della sfera pubblica vacillano, inseguono rimedi contraddittori, oscillanti tra il controllo e la difesa della vita, tra valori che si sono fatti finora la guerra, come la «coercizione al lavoro» e la «potenza dell’amore» (Freud).

Non c’è da meravigliarsi perciò se, nella sia pur limitata apertura della Fase2 della pandemia in Italia, si sono fatte più forti le contrapposizioni, i dualismi che già conosciamo e che rischiano di oscurare ancora una volta le consapevolezze del cambiamento in atto, di indebolire la creatività necessaria per ripensare l’umano nella sua interezza, e la comunità sulla base dei nessi che ci sono sempre stati tra corpo, individuo e legame sociale. C’è chi vede nelle misure restrittive delle libertà individuali una ferita alla democrazia e il rischio di derive autoritarie, chi ritiene che la ripresa di gran parte delle attività lavorative, mentre restano ancora chiuse le scuole, sia “antifemminista”, “odio per le madri”, messe nell’impossibilità di conciliare il lavoro e la famiglia.

Che la cura sia stata considerata, nel privato come nel pubblico, il destino femminile, in quanto “naturale” estensione della maternità, un “dono d’amore” e non un “aggregato della grande economia”, le economiste femministe lo dicono da anni, senza ignorare per questo le implicazioni soggettive: il potere di indispensabilità e il senso della propria esistenza, che la dedizione all’altro è diventata per le donne stesse. Scrive Antonella Picchio: «Ciò che distrugge le donne non è la forza degli uomini ma la loro enorme debolezza. I patriarchi non si sono mai retti in piedi da soli, perché hanno costruito un sistema patriarcale di controllo sul corpo e le menti delle donne. Non sono solo le pratiche e i simboli del sistema patriarcale che ci opprimono ma la nostra assunzione di responsabilità rispetto alla qualità della vita dei nostri compagni e dei nostri figli. Noi abbiamo un delirio di onnipotenza e loro hanno delle profonde debolezze nascoste e coperte da noi».

Che cosa è cambiato nella situazione attuale? Perché il coronavirus ha portato allo scoperto legami che già esistono ma rendendoli al medesimo tempo così sfuggenti? C’è una difficoltà evidente, per chi ha conosciuto una sottomissione di secoli, a uscire da quella che chiamiamo “guerra tra poveri”. La contraddizione che vede le donne esaltate immaginativamente e storicamente inesistenti – per usare le parole di Virginia Woolf – pesa ugualmente su madri e maestre, così come su tutte le donne impegnate nei “servizi alla persona”, dalle infermiere, alle assistenti familiari e sociali. Sono loro ad aver affrontato finora i maggiori rischi, nel rapporto con anziani e malati, il maggior carico di lavoro, sia in casa che fuori, in una vicinanza troppo stretta o in una forzata lontananza dai loro affetti.

In una lettera pubblicata sui social un’operatrice sanitaria scrive: «…molti di noi hanno scelto di allontanarsi dal proprio nucleo familiare per mettere in sicurezza i propri affetti ed evitare che possano essere a loro volta soggetti all’infezione». A sua volta, una docente di scuola superiore, Beatrice Vela, a proposito delle ripetute richieste per la “riapertura immediata delle scuole”, “perché altrimenti le mamme devono lasciare il lavoro”, in un articolo su fb giustamente fa notare che la «funzione principale della scuola non è badare ai figli degli altri mentre sono al lavoro», ma «garantire il diritto di istruzione alle persone». Se i figli sono ancora il problema principale per le madri, e se la scuola è considerata una estensione della funzione materna – aggiunge – «responsabile è il patriarcato».

Che la “conciliazione” tra famiglia e lavoro, in quanto interna alla logica produttivistica del capitale e alla conservazione della famiglia come luogo “naturale” del compito di cura della donna, fosse una strada senza uscita, era già alla coscienza di tante donne prima che la pandemia lo portasse all’evidenza con scelte solo apparentemente contrastanti. La divisone sessuale del lavoro, ragione prima della violenza visibile come di quella manifesta sulle donne, è la “normalità” di cui non dovremmo augurarci ma temere il ritorno.