Editoriali
Crisi Iran, gli americani abituati alla guerra ma la temono e non la amano
Ero in mezzo al traffico di New York quando è arrivata la notizia dell’attacco ed eliminazione di Qassem Soleimani. Il traffico feroce ha avuto un sussulto, gli schermi televisivi dei taxi hanno cominciato a trasmettere, la gente ha appreso al volo da strisce di parole volanti e parlate ovunque. Il presidente aveva detto che enough is enough, quando è troppo è troppo e che aveva preso la sua decisione dopo aver visto nei dettagli il filmato dell’attacco all’ambasciata americana a Baghdad. He’s fucking mad, mi dice l’autista afroamericano usando un’espressione che può voler dire sia che Trump è incazzato nero, sia che è pazzo come un cavallo. Reazione? Noi in Europa non siamo americani e non sappiamo quanto la guerra sia parte del panorama di ogni singolo americano: tutte le famiglie hanno avuto caduti fra i parenti e i conoscenti in guerre successive alla Seconda guerra mondiale. Si tratti della Corea, Vietnam, Golfo, Afghanistan, Medio Oriente e anche Somalia, Grenada, guerre e interventi spesso dimenticati. Dunque, lo shock per una possibile guerra imminente non ha lo stesso impatto.
In Usa si discute freneticamente se fosse proprio il caso di abbattere “the bad guy”, il cattivo, viste le conseguenze possibili, ma sul fatto che Soleimani fosse un uomo degno di attenzione militare, nessuno ha dubbi. Tutti ammettono, sia per strada che nelle interviste, di aver appreso la notizia con soddisfazione ma anche con preoccupazione. Ma non con troppo scandalo, come fanno vedere invece pubblicamente i democratici come Nancy Pelosi impegnata in una sua partita a scacchi e all’ultimo sangue contro The Donald, cominciata con la procedura di impeachment e che dovrebbe concludersi al Senato con una battaglia frontale da cui il Presidente uscirà scagionato, sì, ma forse azzoppato in vista delle presidenziali. È quello che tutti sperano fra i democratici; e naturalmente sia la gente della strada che i commentatori politici e i politici stessi dicono che la mossa di Trump è probabilmente legata al suo desiderio di far passare in secondo piano il suo processo, di fronte a una emergenza nazionale e militare, caso in cui l’intero popolo americano si schiera con la propria bandiera, semmai ne riparleremo dopo.
Ma la gente ricorda anche che Barak Obama era totalmente “addicted” al joystick con cui dava l’ok all’eliminazione dei brutti ceffi che il Pentagono e la Cia gli proponevano quasi quotidianamente. Questa sua inclinazione a dare l’ok per ammazzare i singoli nemici, o anche a gruppi e famiglie, lo aveva esposto a molte critiche da cui si era sempre difeso ricordando che l’America è in guerra contro il terrorismo e che quando si è in guerra in genere si colpisce il nemico. Dunque, sarebbe come se Giuseppe Conte, o Matteo Renzi, o Gianni Letta, in passato avessero dato il loro ok per far fuori qualche nemico dell’Italia e tutti lo sapessero senza essere in disaccordo. Non è così per noi, ma lo è per gli americani. Coloro i quali sono furiosi con Trump, lo sono non per questioni morali, se fosse giusto o no eliminare dalla faccia della terra un uomo come Soleimani. La riprovazione o la rabbia o il disprezzo o la paura nascono solo dalla valutazione delle conseguenze: What’s next?, che cosa succede dopo? Avete calcolato o no? Avete idea della loro risposta, della nostra contro risposta e prima di tutto se davvero siamo intenzionati a fare una guerra con tutte le armi disponibili per vincerla, schiacciare il regime iraniano, occupare il Paese vinto e instaurare un governo provvisorio amico?
Trump giura di non avere questa intenzione e probabilmente è sincero: ciò che non si vede in televisione e sui giornali quando ci mostrano le folle urlanti “Morte all’America!” è che in Iran l’ucciso Soleimaini era odiato come una belva: è stato lui a far uccidere migliaia di dissidenti e a organizzare la repressione nel sangue degli insorti. Il Generale Maggiore aveva anche l’abitudine di eseguire personalmente molte condanne a morte, cioè si divertiva ad assassinare i prigionieri, era considerato da mezzo Iran come un feroce macellaio ed era odiatissimo in Libano, Siria e nello stesso Iraq, proprio l’ Iraq in cui gli americani intervennero per liberarlo della dittatura di Saddam Hussein, ultimo di una generazione di tiranni del socialismo Baath da sempre filo-nazista (il Grand Muftì di Gerusalemme era un ospite regolare di Hitler, per fornire assistenza alla soluzione del problema ebraico e reggimenti di Ss furono reclutati proprio dalle aree petrolifere del Medio Oriente).
Gli americani temono che una guerra oggi potrebbe durare chissà quanto e che i giovani siano sottoposti a draft, alla leva obbligatoria.
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