«Se può farle piacere è quello che stavo cercando, un po’ d’isolamento. Sto per partorire un romanzo, quindi cinque mesi di pace sono proprio quello che ci vuole», risponde sicuro Jack Torrance durante il colloquio. Sta per accettare il lavoro di custode all’Overlook Hotel nei mesi invernali, quando l’albergo è deserto e irraggiungibile a causa della neve. «Per molte persone l’isolamento e la solitudine possono rappresentare un problema», dice il direttore della struttura, stupito dalla sua tranquillità. Per correttezza, lo informa anche dei tragici fatti che hanno visto protagonista il guardiano precedente: «Durante l’inverno gli deve essere venuto un fortissimo esaurimento nervoso e ha fatto a pezzi tutta la famiglia con l’accetta». Un attacco di «febbre del chiuso», una sorta di «claustrofobia che viene quando ci si trova chiusi insieme per un lungo periodo di tempo».

«Sono cose che non succedono a uno come me», ribadisce sicuro Jack. E parte senza indugio, insieme alla moglie Wendy e al piccolo Danny, per trascorrere l’inverno tra le montagne del Colorado. Lui si occuperà dell’ordinaria manutenzione dell’Overlook, sua moglie farà da mangiare, il figlio potrà scorrazzare con il suo triciclo negli enormi saloni e lungo gli infiniti corridoi dell’albergo. «Di idee ne ho, ne ho tante. Ma nessun buona». L’isolamento sarà provvidenziale per stimolare la sua ispirazione di scrittore. Finalmente il tempo e la tranquillità necessari per dare spazio alla creatività e completare il suo libro. Facile riconoscere in queste righe il preambolo dei closing days raccontati esattamente quarant’anni fa da Shining.

Lo sguardo folle di Jack (interpretato da uno straordinario Nicholson) è rimasto iconico nella storia del cinema. Il film cult girato da Stanley Kubrick nel 1980, tratto dall’omonimo romanzo di Stephen King, lo conosciamo a memoria. Ma in questi mesi di “temporanea” reclusione domiciliare tornano alla memoria le scene di quel viaggio nel cuore di tenebra di una famiglia in isolamento. Intanto perché ci ricordano, se ce ne fossimo dimenticati, che l’isolamento forzato con il proprio nucleo familiare non è per tutti un idillio alla Mulino Bianco fatto di lievito madre, allenamenti online e tempo ritrovato con gli affetti. Per qualcuno, la convivenza in casa si sta trasformando in un incubo, in più di un caso in un horror destinato a sfociare nella violenza.

L’hotel-casa è apparentemente un luogo sicuro, isolato dai pericoli del mondo esterno e dotato di tutte le comodità, con le cucine rifornite di ogni bendidio e stanze finemente arredate. È proprio in quegli spazi luminosi, però, che Kubrick annida la tenebra della follia. Là dove regna la luce alberga l’oscurità. La macchina da presa del regista – che segue a distanza ravvicinata gli spostamenti degli attori – trasmette una tensione sempre crescente: le stanze accoglienti, i saloni enormi e gli infiniti corridoi si trasformano in una prigione claustrofobica senza vie d’uscita. La discesa agli inferi avviene dal focolare domestico e il luogo della felicità è più simile alla spettrale “camera 237”.

Nelle famiglie il dramma si consuma A porte chiuse. Come nel testo teatrale di Jean-Paul Sartre, i cui personaggi sono costretti a stare insieme in una stanza che non ha finestre e non ha specchi. E finiscono per torturarsi a vicenda con domande crudeli, commenti sconvenienti e giudizi inappellabili scagliati sulla vita degli altri. «L’enfer, c’est les autres, l’inferno sono gli altri” chiosa il filosofo francese. Rimaniamo prigionieri dei rapporti conflittuali con i nostri “congiunti”, spesso gli ultimi capaci di comprenderci.

Jack Torrance non si trasforma dal nulla in un mostro; prima di arrivare all’hotel non è un marito e un padre modello: ha problemi di alcolismo, è passivo-aggressivo con la moglie, in preda a uno scatto d’ira arriva perfino a slogare una spalla al figlio. Insomma, il prototipo di padre e marito violento, frustrato per i problemi lavorativi aggravati dalla crisi, in condizione di vicinanza forzata con i suoi familiari. Con tali premesse non è difficile prevedere le conseguenze infauste. Inoltre, ci insegna Shining, l’isolamento non è necessariamente foriero di ispirazione. Anzi, la chiusura dello spazio e la concomitante dilatazione del tempo non favoriscono il respiro vitale della creatività: «All work and no play makes Jack a dull boy, Solo lavoro e niente divertimento rendono Jack un ragazzo annoiato». Il tracollo in delirio psicotico accompagnato da incubi e allucinazioni è alle porte: «Sono il lupo cattivo!», dice Jack contro ogni rilettura fiabesca dell’universo familiare.

Gli interminabili silenzi ovattati dell’hotel sommerso dalla neve risvegliano incubi rimossi, fanno esplodere un’aggressività sopita. La sterilità produttiva si trasforma in rancoroso risentimento: Jack ha bisogno di individuare un responsabile della sua inattività e della sua inadeguatezza. La sua frustrazione si trasforma in rabbia contro gli unici bersagli disponibili: sua moglie e suo figlio. È la sua famiglia la causa del fallimento. Se è vero che la violenza è una risposta all’impotenza e all’insoddisfazione, non può che risvegliarsi in una situazione di forzato isolamento.
L’incapacità di misurarsi con il fallimento e con la solitudine si accentuano quando non c’è modo di allontanarsi dal nucleo familiare, specchio delle proprie mancanze. La cosa peggiore che può capitare non è necessariamente il dolore fisico, il nostro girone dell’inferno può non prevedere la sofferenza del corpo ed essere altrettanto crudele. In questi tempi, si parla soltanto di preservare, con il nostro comportamento corretto, la salute fisica della popolazione più fragile ed esposta alle complicanze del virus.

Si parla poco, invece, del nostro equilibrio psicofisico: anche la salute mentale è salute, anche la sofferenza psicologica è sofferenza. I danni psichici affiancheranno i danni economici, anche se le pagine dei giornali oggi non hanno spazio per ricordarlo, sommersi dalle interpretazioni dell’ultimo provvedimento. Decreto dopo decreto, limitazione dopo limitazione, rischiamo di perderci nel dedalo di pazzia del nostro personale Overlook Hotel. Sarebbe utile avere the shining, la luccicanza, la dote paranormale di cui è provvisto il piccolo Danny che riesce a prevedere e a prevenire il futuro. Ma la previsione e la prevenzione non sono doti che di questi tempi si sposano con l’arte politica, tutta schiacciata sulle emergenze del presente. Ma senza la “luccicanza” difficilmente usciremo dal labirinto di questi tempi oscuri.