Nel momento in cui provo a ragionare con una qualche freddezza sull’eliminazione del generale Soleimani, sulle motivazioni, le conseguenze e il potenziale ruolo italiano ed europeo, giungono dagli Usa notizie che paiono rafforzare i miei primi convincimenti, quelli per cui gli Stati Uniti rischiano di non avere una condotta percepita come coerente ed efficace nella lotta per l’egemonia nell’infuocato Medio Oriente. In una inusitata drammatizzazione a colpi di tweet, il presidente Trump annuncia in un post che gli Stati Uniti risponderanno rapidamente e pienamente a ogni azione iraniana (e fin qui nulla di nuovo) e che tale dichiarazione su Twitter debba considerarsi come formale comunicazione al Congresso, ove mai ve ne fosse bisogno. La commissione affari esteri del Congresso, per tutta risposta, poco dopo e con lo stesso mezzo di comunicazione, ricorda a Trump la Costituzione americana e il War Powers Act, come cioè il potere di dichiarare guerra spetti al parlamento, e infine rivolgendosi direttamente al presidente, il comunicato delle Camere conclude affermando: «You’re not a dictator».

Questo è un saggio dello scenario politico interno in Usa, così divaricato da invalidare lo storico motto “right or wrong it’s my country” che pure tradizionalmente compatta gli americani in tempi difficili. Solo in questo quadro può valutarsi a pieno la mossa a sorpresa del presidente americano a Baghdad e soprattutto quanto essa rischi di essere geopoliticamente poco efficace. Mi spiego meglio tra un attimo. Ma innanzi tutto, chi era davvero Soleimani e perché Trump ne decreta l’uccisione? Si tratta dell’uomo che, con la benedizione di Khamenei, portava a compimento un progetto avviato con la rivoluzione khomeinista del 1979: l’egemonia in generale sciita, in particolare iraniana sul Grande Medio Oriente. E questo disegno egemonico si realizzava principalmente attraverso il lavoro che in oltre vent’anni il capo della divisione speciale dei Pasdaran realizzava nell’organizzazione e nella direzione in tutta la regione di milizie non statali fedeli a Teheran, in qualche caso persino non sciite. La guerra civile in Siria, che ha visto Soleimani coordinare decine di migliaia di miliziani sciiti provenienti da Libano, Iraq, Afghanistan e Pakistan impegnati nei combattimenti al fianco delle truppe del presidente Bashar al Assad e la direzione di milizie irachene nella guerra all’Isis, le cosiddette Milizie della mobilitazione popolare (Hashd Shaabi), oggi una straordinaria forza militare a disposizione di Teheran, sono state le sue due operazioni più celebri.

E per non bastare, il lavoro più oscuro e penetrante di Soleimani si era già tradotto nella stabile cooperazione strategico militare con gli Hezbollah libanesi, con Hamas e la Jihad Islamica in Palestina e con gli Houthi in Yemen. Una straordinaria opera egemonica che consentiva al generale dei pasdaran di attivare a comando attentati, azioni di guerra sporca e guerre classiche in tutta la penisola. In sintesi, dal punto di vista americano, l’obiettivo di eliminazione di Soleimani aveva una sua ragione nella visione strategica degli Usa di interrompere la continuità geografica della “Mezzaluna sciita” che si estende dall’Iran bagnato dall’Oceano Indiano e dalle acque del Golfo Persico fino alle coste del Libano meridionale sulle rive del Mediterraneo attraverso Iraq e Siria e nella necessità di rispondere agli atti di guerra a bassa intensità in corso. Il problema è che l’uccisione di Soleimani è un’azione le cui gravi conseguenze rischiano di non essere assorbite agevolmente solo se non vi fosse davvero l’intenzione da parte degli Usa di restare in Medio Oriente a lungo termine, nel quadro di un impegno che l’esecutivo assume unitamente al Congresso.

Le dichiarazioni di Trump isolazioniste e di disimpegno degli scorsi mesi per cui aveva ripetutamente annunciato di “volere uscire dalle guerre senza fine” di quella regione e la mancata consultazione dei presidenti repubblicano e democratica delle due camere prima di questa spericolata operazione, depongono nel senso esattamente opposto, di una scelta cioè estemporanea e improntata alla dottrina della “difesa preventiva” che già con Bush gli Stati Uniti avevano negativamente conosciuto, alimentando focolai dalle conseguenze disastrose in più teatri di crisi nel mondo. Forse ha ragione chi valuta questa operazione americana come un sicuro successo tattico che Trump può presentare ai cittadini statunitensi nell’anno elettorale, chiedendo che il Paese non cambi il Comandante in Capo ma che, nel medio periodo, può dare fuoco a una regione che è già una polveriera. Che succede adesso e cosa l’Italia e l’Europa possono fare in un contesto così esplosivo?