Le pallottole verbali di Cacciari e Agamben, indirizzate contro il vaccino trionfante quale novello “simbolo politico-religioso”, hanno fatto cilecca tra i professionisti della episteme che ridono di tante leggerezze ma hanno conquistato casematte sul terreno della doxa che è cosa fondamentale nei tempi di populismo. Chi ha dimestichezza con il diritto o con la medicina, trova in certe analisi contro “la sperimentazione di massa”, con accostamenti persino al “manifesto per la razza” o al “bisogno di discriminare”, delle considerazioni assurde con implicazioni manifestamente sgrammaticate.

E però talune immagini apocalittiche hanno prodotto comunque un impatto sulla politica. Non si tratta solo di Giorgia Meloni che condivide sulla sua pagina gli scritti contro i dispositivi del sorvegliare e punire e celebra i passaggi televisivi più plateali dei filosofi ribelli contro lo stato di emergenza sanitaria (il talk show come unica zona di resistenza al dominio pervasivo!). Anche il solitamente misurato Marco Damilano, che pure conosce la complessità delle questioni istituzionali, recupera le analisi biopolitiche e addirittura rilancia la denuncia di Cacciari contro un progressivo svuotamento democratico che «trasforma l’emergenza perenne in uno strumento di governo, uno stato di emergenza costituzionalizzato».

Sotto attacco sono i governi liberali che, in una situazione di emergenza sanitaria (che, con un grave errore concettuale-definitorio, viene scambiata dai teorici biopolitici con lo stato di eccezione di Schmitt), impongono le necessarie forme di un obbligo politico con misure temporaneamente restrittive. Con questi provvedimenti, coperti in ogni caso dalle risorse procedurali dell’ordinamento, i governi hanno, con una variabile efficacia va da sé, varato urgenti disposizioni per la affermazione dei principi della doverosità sociale. Dalle visioni oracolari di una emergenza ormai costituzionalizzata, con uno scivolamento inarrestabile verso un restringimento dei diritti civili e politici che viene giustificato ora dalla salute e altre volte dalla contingenza finanziaria, parte anche l’affondo di certi ambienti giustizialisti contro Mattarella e il suo contributo al Conticidio.

Il Quirinale vi compare come l’architetto dell’emergenza che si consolida quale prassi ordinaria di politica istituzionale da quando ha evocato proprio la pandemia come un motivo sostanziale di impedimento nel ricorso al voto anticipato. In realtà le cose andarono diversamente da quanto sostenuto dai giudici improvvisati nelle loro sentenze su “tutti gli errori di Mattarella”. I partiti avrebbero potuto imporre la loro determinazione per lo scioglimento delle camere, non lo hanno fatto e quindi è semmai la loro pavidità ad essere imputabile. È del tutto insostenibile la chiacchiera di una condotta liberticida del Colle che, con deroghe e chiusure autoritarie, avrebbe ostacolato nientemeno l’esercizio libero della sovranità popolare.

Secondo certe letture oggi in auge sulla stampa, l’emergenza non è nella pandemia che minaccia i corpi (se 130 mila morti vi sembran pochi) ed impone interventi legislativi a difesa della vita ma è semplicemente una costruzione deliberata dei governi fintamente democratici che marciano spediti in vista di un restringimento progressivo degli spazi di libertà. Si può comprendere la logica commerciale che consiglia alla Stampa e all’Espresso l’amplificazione di certe “analisi” pseudo-radicali che civettano con i professori recalcitranti all’idea che qualcuno del personale sanitario faccia loro un buchino sul preziosissimo braccio. Quello che sfugge è il motivo dell’accettazione di una visione scettica sull’obbligazione politica, che ogni democrazia può richiedere a protezione di bisogni collettivi, da parte del sindacato che annuncia scioperi contro l’obbligo del green pass visto come uno strumento di sorveglianza e discriminazione. La protezione dei malati, degli immuno-depressi, dei soggetti fragili o in cura dovrebbe sempre prevalere sulle lamentele circa le presunte discriminazioni cui sarebbero costretti i non possessori del green pass che non possono bere un bicchiere in pubblico.

Nel suo tirarsi fuori da quella leopardiana “social catena” contro la natura che diffonde pericoli di morte, il sindacato adotta i principi della biopolitica alla Agamben che vede nelle misure governative nientemeno che una “abolizione dell’amore” e celebra la rivolta del singolo rispetto alla orribile comunità che con una vocazione totalitaria protegge il primario diritto alla vita. Sul piano etico, per il riconoscimento dell’altro può bastare anche la pietas o la humiana simpatia che induce ciascuno a prendersi cura della sofferenza degli altri e a provare un disagio sulla altrui condizione come fosse la propria. Sul terreno giuridico, questo sentimento morale, che induce a comprendere e a condividere il disagio altrui come non indifferente, si traduce però in stringenti principi giuridici e doveri di solidarietà imposti anche con esplicite sanzioni. È un peccato che Landini non abbia letto Marx. I sindacalisti di una volta lo frequentavano di più e con qualche profitto. Da Trentin a Bertinotti (che addirittura seguiva la bussola infallibile di Della Volpe) il sindacalismo rosso aveva una dimestichezza con i classici. E proprio dai classici Landini avrebbe potuto apprendere che dentro la fabbrica si pongono anche problemi di natura pubblica e che tocca all’autorità politica ricoprire d’imperio (sì con sanzioni) per difendere i corpi di chi lavora anche a dispetto della volontà delle parti interessate pronte a rinunciare a tutele. Nel Capitale Marx esaltava il parlamento inglese che, su richiesta delle grandi lotte operaie e sindacali (erano altre organizzazioni, evidentemente), si decideva a varare norme, inchieste, misure urgenti sulla salute, i tempi di lavoro.

Si tratta di questioni che in democrazia sono state pubblicizzate. Sia con il diritto civile, che contempla per l’impresa una cogente responsabilità in merito alla salute dei lavoratori sia con il diritto penale e amministrativo che introducono apparati sanzionatori. In questo modo, il principio aureo della autonomia, come regola principe dei rapporti tra soggetti privati, si è piegato dinanzi al riconoscimento dello spazio ineludibile della eteronomia che procede anche nei rapporti di lavoro, se necessario persino oltre la “libera” volontà derogatoria del singolo che rinuncia a diritti e condizioni legali, con sanzioni penali, civili, amministrative. Insorgendo contro le misure eteronome previste in Gazzetta Ufficiale, per imporre norme efficaci di sicurezza in fabbrica, il sindacato di Landini, sempre meno rosso e sempre più giallo (aideologico-grillino), denuncia una «logica punitiva e sanzionatoria» e nei fatti segue le ricette del sociologo Spencer che, diversamente da Marx, inveiva contro il parlamento inglese che osava intromettersi nei sacri principi dell’autonomia negoziale imponendo delle intollerabili restrizioni legali tese a limitare l’arruolamento in fabbrica di bambini di otto anni, inopinatamente deprivati della loro piena autonomia negoziale.

Questi odierni urlatori anti-liberisti, annidati nel sindacato e nella biopolitica, sono scolari tardivi di Spencer, non certo di Marx. E ricorrono, nelle loro pseudo-argomentazioni, alle stesse formule antipolitiche di Von Mises, Hayek contro l’orrore della regolazione. Gratta un sindacalista che alza la voce contro le discriminazioni dei non vaccinati, che per lui andrebbero tutelati anche nella loro potenziale minaccia rispetto all’indisponibile diritto alla vita degli altri, o un biopolitico antiliberista, che vaneggia sul dispositivo di controllo totalitario insito nella protezione del corpo dalla malattia pandemica, e scopri il volto impassibile dei padri del neoliberismo più radicale.