Maurizio Del Conte, docente di diritto del lavoro alla Bocconi e Presidente dell’Agenzia Nazionale per le Politiche Attive del Lavoro: «I problemi sono dove il Jobs Act non c’è».

Parliamo di Milano, nella sua dimensione di metropoli. Il lavoro si trasforma, la città concentra su di sé i nuovi mercati che appaiono sempre più veloci nel cambiare. La città è al passo, o rischia crisi di identità?

«È una città che è sicuramente tiene un passo veloce. È una città che riesce a cambiare identità, così come ha dimostrato dopo il l’Expo- In tempi velocissimi – quindi rispondendo a quelli che sono gli stimoli esterni. Certo con alcune criticità, che dipendono anche dal fatto che Milano non è una città Stato, ma si inserisce in un contesto più ampio e complesso. Parlando di identità, vien quasi da dire che Milano ha sempre rinunciato in qualche modo, rapidamente alla sua storia. Molte città hanno una loro proprio identità storica che si portano dietro per secoli, ma Milano non è così. Vanta anche una dinamicità di movimenti fra chi viene, chi va e quindi è molto esposta a cambiare anche popolazione».

Soprattutto le tecnologie hanno dettato la necessità di lavori a maggior qualifica e competenza. A Milano, in questo senso, le università con la loro eccellenza generale, giocano un ruolo importante. C’è una giusta connessione?

«Si è verificato un processo biunivoco, cioè da un lato le Università che rispondono al cambiamento del contesto, dall’altro il contesto che risponde all’offerta dell’Università. Del resto, ormai., alcuni ambiti sono stati abbandonati. Tutta la parte della produzione manifatturiera, sostanzialmente non incide più. La città che ha preso una sua direzione e non è più interessata a connettersi con settori a basso valore aggiunto».

Partendo da Milano, guardiamo oltre. Da almeno vent’ anni, quando si parla di lavoro, la parola sulla bocca di tutti è “flessibilità”. Poi, però, c’è sempre qualcuno che invece di essere flessibile, si irrigidisce…

«Sì, in realtà. Milano è da questo punto di vista è molto più europea di tante altre realtà del territorio, nel senso che si confronta con i Paesi europei dove questa flessibilità è un fatto acquisito A Milano si cambia lavoro molto molto velocemente e si trova anche lavoro molto velocemente rispetto al resto d’Italia, basti pensare che il tasso di disoccupazione è sotto al 5%, cioè è un tasso, come si dice in termini tecnici, frizionale, fisiologico., Milano è la città dove, se vuoi le protezioni devi costruirti le competenze. Il tema non è il lavoro, ma le retribuzioni In rapporto ai costi. Ma questo In qualche modo sfida ancora di più ad alzare le competenze per posizionarsi sulla parte più alta del mercato del lavoro».

Ovviamente La volevo portare a parlare di Jobs Act. A proposito di Milano, un quotidiano, nel maggio del 2016, titolava così: “Il Jobs Act, a sedici mesi dalla sua introduzione: quasi una metà dei vantaggi prodotti da questa operazione si sono azzerati”. Era vero?

«Gli effetti di una riforma così, di sistema, si vedono non a 16 mesi, ma negli anni. Il Jobs Act ha segnato una svolta che è stata metabolizzata, è entrata nel modo di essere del lavoro. I numeri dicono che abbiamo più contratti a tempo indeterminato, che abbiamo più occupazione. I miglioramenti, casomai, non si sono avuti proprio laddove il Jobs Act non incideva, cioè il tema dei salari Oggi il problema è ciò di cui non si è occupato il Jobs Act».

Poi ci sono stati anni di continue modifiche. Ora è diventato il nuovo bersaglio da sinistra, da una parte sindacale…

«Sì, in realtà il bersaglio è un pezzettino, cioè ancora una volta riguarda l’articolo 18, questo benedetto sistema di tutele crescenti. Ricordo sempre che Jobs Act si compone di otto decreti legislativi, ma si va a discutere sempre di quello. Vuol dire riesumare questioni che sono state già in qualche modo sistemate dalla storia. La questione lavoro oggi non è attorno alla tutela della reintegrazione. Vogliamo una sistemazione della disciplina? Facciamo una riforma, un ridisegno! Un referendum abrogativo, mi sembra che sia veramente un’operazione priva di senso».

Tornando alla Milano che chiede flessibilità, agilità ed è la realtà economica e lavorativa pilota: chiamiamolo Jobs Act o come vogliamo, ma lo diciamo che la direzione è necessariamente quella e che altrimenti si rischia di perdere il treno del cambiamento e della crescita?

«Sì, se vogliamo guardare all’avanguardia del lavoro. Milano è stata ed è la città laboratorio del lavoro. E’ stata la città dove si è sperimentato il primo patto per il lavoro di Biagi, dove si sono in qualche modo impostate le riforme del lavoro del ventunesimo secolo. È il laboratorio di sperimentazione delle nuove soluzioni».

Mario Alberto Marchi

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