Sotto la direzione di Massimo Giannini la Stampa si è fortemente collocata nell’ambito della “sinistra illiberale” che tanto spaventa oltremanica il foglio gemello The Economist. Lo spettro di una deriva radicaloide, che l’organo della famiglia Agnelli denuncia sulle rive del Tamigi, è proprio lo stesso che la proprietà foraggia generosamente sulle calde acque del Po. Una vera doppiezza. Non è dunque il plebeo estremismo che dal basso inveisce contro l’élite a imperversare come una minaccia alla razionalità politica della vecchia Europa. È proprio il classico foglio del grande padronato a imprimere dall’alto della sua influenza una radicalizzazione che delegittima l’ordinamento costituzionale come potere alla deriva e nei suoi vertici in preda a un anomalo delirio autoritario.

Agli affondi crepuscolari di Agamben e Cacciari si è aggiunto infatti un ulteriore livello di denuncia: Draghi in persona è ritenuto “una sorta di sovrano contemporaneo”. Tradotta in prosa, la definizione di Donatella Di Cesare significa che con la leadership personale di Draghi si spezzano i fili residui dello Stato di diritto per sperimentare altre forme di dominio politico. Sovrano è chi decide con il supporto della coercizione collocandosi ambiguamente oltre il codice stringente della legalità. E l’azione di Draghi è ritenuta fortemente dissolutrice, trattandosi di “un sovrano della competenza” che con le sue decisioni irrituali rompe “la forma della repubblica così com’è”. Il “premier-guaritore”, come viene chiamato da Di Cesare, è una reincarnazione del “Les rois thaumaturges” di Marc Bloch. Questa figura di un corpo regale che si sacralizza alimenta la falsa credenza di massa in una menzogna, quale è il rito della guarigione, per cui il sovrano con il tocco delle sue mani sforna attitudini taumaturgiche. Con il misticismo del capo di governo che compie miracoli con gli abiti della tecnica si entra nell’età della menzogna istituzionalizzata, della rottura di ogni ordine formale-legale ad opera di un sovrano-persona.

Secondo l’editorialista della Stampa non solo la grande riforma semipresidenziale è “quasi un dato di fatto” (Draghi diventa l’esecutore testamentario di un abortito progetto di Craxi) ma nella sfera pubblica domina lo spettro della deriva autoritaria perché per molti attori la “democrazia è un optional”. Secondo Di Cesare occorre perciò, nella slavina costituzionale in corso, alzare il livello della critica e colpire esplicitamente la figura di Draghi come “timoniere di una democrazia sospesa” che ha rotto il patto repubblicano. Si sta parlando della repubblica democratica che non ha mai sfiorato i diritti ritenuti inviolabili, cioè i principi supremi che proprio in quanto valori fondativi dell’ordinamento vengono sottratti anche alle leggi di revisione costituzionale, ma sembra che la Stampa abbia presente “lo stato di pericolo pubblico”, un istituto fascista degli anni trenta o “La suspension de l’empire de la Constitution” prevista dalla legge francese post-rivoluzionaria.

Eppure, in un’Italia colpita dalla pandemia, restano ben scolpiti i diritti inalienabili della persona, la libertà e segretezza della comunicazione, i diritti politici e sindacali, l’habeas corpus e nella vita di relazione non domina il sospetto, la delazione. Non si intravvede l’accentuazione repressiva del diritto penale con la sospensione della presunzione di innocenza, con il ricorso all’analogia e alla retroattività della norma, non si avvertono inasprimenti di pene con gracili fattispecie, invenzioni arbitrarie di reati (nella sanità pubblica non si riesce a sospendere dal servizio neppure il migliaio di medici no-vax). E neppure, malgrado l’efficienza logistica del generale Figliuolo che compare solo in una divisa che non evoca terrore, si avverte l’opera di commissioni militari speciali, l’intrusione repressiva di tribunali ad hoc. In condizioni drammatiche (oltre 130 mila morti) e con le limitazioni solo temporanee (e quindi ragionevoli-proporzionali allo scopo) di piccole e preziose libertà quotidiane, le risorse dell’ordinamento sono state attivate per tutelare il dovere pubblico irrinunciabile (per ogni forma politica, non solo quella democratica) di garantire il diritto alla vita.

Nel mezzo della emergenza sanitaria non si è precipitati in uno sregolato stato di natura o condizione di guerra ma sono state celebrate elezioni regionali, comunali, referendum, congressi di non-partiti. E nessun organo costituzionale è stato ridimensionato nella pienezza delle proprie funzioni. Non c’ è in corso alcuna sospensione dell’habeas corpus, non si registra alcuna interruzione della vita istituzionale e restringimento del pluralismo sociale, politico, culturale. E i vaccini, come strumento di protezione del bene indisponibile della vita, che è la radice originaria della forma politica in quanto tale, non sono equiparabili ai rastrellamenti di massa perché la fila delle persone nei centri della sanità pubblica non è assolutamente la variante post-moderna della nazionalizzazione e disciplinamento totalitario di massa (vero Giuliano Ferrara evocatore, sulla inopinata scia di “filosofi effimeri e bizzarri”, di una assai immaginaria “svolta autoritaria”?).

Sul foglio ribelle torinese i concetti di emergenza e di eccezione perdono la loro pregnanza analitica (riferite alle consuetudini del “doppio Stato” mirabilmente raccontate da E. Frenkel) e diventano delle vaghe espressioni semanticamente ballerine. Non l’emergenza, come in altri interventi di Cacciari e Agamben, ma proprio “l’eccezione si affaccia inquietantemente all’orizzonte” secondo Di Cesare. Le parole hanno però un significato univoco nel diritto. Per stato di eccezione si intende in dottrina una rottura profonda che altera il quadro costituzionale, una cesura cruenta o meno che spezza repentinamente l’ordine politico. Lo stato di eccezione indica per definizione l’emersione di un momento autocratico situato al di fuori della norma e quindi un esercizio del comando incompatibile con lo Stato di diritto. Esso prospetta anzi la esplicita fuoriuscita dal principio di legalità e l’avvento di una condizione estrema di dominio irresistibile in sé privo di forme.

Nel caso di eccezione ricompare il sovrano che, con il recupero del monopolio della decisione ultima, rinuncia ad ogni regola e strapazza qualsiasi procedura vincolante. Lo spiega bene Schmitt: «Nel caso di eccezione la decisione si distingue dalla norma giuridica, e (per formulare un paradosso) l’autorità dimostra di non aver bisogno di diritto per creare diritto». Si tratta non di un semplice Stato assoluto (sciolto da vincoli giuridici che appaiono del tutto volatilizzati) ma di un apparato totalitario (mobilita, reprime senza limiti, si insinua nella società in modo penetrante, oppressivo) che affida al sovrano la decisione ultima non giustificata da norme vigenti. La sua volontà discrezionale e senza regole (l’eccezione è «il caso non descritto dall’ordinamento giuridico vigente») si afferma come duro fatto e appare sciolto da forme in quanto la irruzione decisionale-creatrice non è giustificata da altre norme o principi costituzionali.

Secondo la Stampa il ruolo di Draghi è a tutti gli effetti quello di un sovrano schmittiano che, avendo rotto di proposito la cornice di legalità, giace al di fuori dell’ordinamento. Dinanzi a una democrazia sospesa, per via di una slealtà del titolare del potere che abusa delle proprie attribuzioni procedurali, sono possibili ben poche risposte, una volta preclusa quella adombrata dalle dottrine alto medievali che si spingevano sino al tirannicidio. Se però l’eccezione è una condizione reale della repubblica neppure sono disponibili quali argini le vie delle istituzioni di garanzia che sono state soppresse e svuotate proprio dalla situazione di eccezione. Come precisa Schmitt «nel caso di eccezione, lo stato sospende il diritto, annulla la norma». Cosa è legittimo fare allora per difendere le libertà fondamentali entro una democrazia che per Di Cesare è stata sospesa per colpa del prestigio conferito ad “una rockstar mondiale della knowledge”? Quale condotta è lecita ex parte populi per impedire che qualcuno, arroccato nel palazzo del governo, consolidi l’arbitrio del potere e prolunghi l’incertezza dello stato di eccezione?

Se l’accusa a Draghi è quella di essere diventato, nel vuoto dei partiti e senza neppure il bisogno di un colpo di mano ex parte principis, il sovrano che governa discrezionalmente lo stato di eccezione, degli efficaci rimedi legali-procedurali non sono disponibili: le istituzioni di garanzia sono di per sé incompatibili con il concetto stesso di stato di eccezione (che per Schmitt implica proprio «la sospensione dell’intero ordinamento vigente»). Non resta allora che seguire le vie di fatto contro il “timoniere” guaritore e attendere che Giannini con la barba risorgimentale scenda in via Lugaro per distribuire le istruzioni per la disobbedienza civile o per fornire le direttive indispensabili per esercitare il diritto di resistenza (previsto dalla carta tedesca, ma non da quella italiana). C’è molto da temere da una sinistra illiberale, ma gli scritti dei padroni illiberali che evocano di fatto un metaforico “Draghicidio” inquietano ancora di più in questi tempi di innamoramenti per le categorie distruttive di “filosofi effimeri e bizzarri”.