L'anniversario
Sinistra, la sfida mancata del riformismo
1) Il Pci fu un partito determinante nella storia della sinistra e dell’Italia. I suoi meriti nella costruzione dello Stato democratico sono indiscutibili. La sua politica, nei suoi momenti più maturi, fu una sorta di “riformismo pratico” per quanto accompagnato da una persistente negazione ideologica del riformismo come visione e prospettiva e dal non meno ideologico ancoraggio a un orizzonte rivoluzionario di superamento del capitalismo. «Alla base della politica che mi affascinava – scriverà Alfredo Reichlin – c’era la scelta di Togliatti di riconciliare la classe e la Nazione, il suo incitamento a costruire un partito di popolo, capace di portare a compimento il Risorgimento e di aderire ad ogni piega del Paese. Certo, fummo anche stalinisti, aggiunge Reichlin, e non per gioco. E in ciò sta la doppiezza del Pci, il lato tragico di una grande forza che, mentre spingeva il popolo italiano a misurarsi con i problemi del governo del Paese, rappresentava esso stesso, per la sua collocazione internazionale, il maggiore ostacolo». Giorgio Napolitano si rammaricherà che «dopo la nascita del Pds e dei Ds, sia mancato un impegno del nuovo gruppo dirigente a confrontarsi seriamente con la esperienza del Pci, sia nel senso della valorizzazione del nucleo vitale democratico e di progresso di quella storia ed egualmente nel senso di un approfondimento dei tratti politici e culturali tipici del comunismo di cui era impregnato anche il Pci».
2) La originalità del comunismo italiano, ne scrive Biagio de Giovanni sul Riformista, risiedeva non soltanto nella attrazione che esercitava la sua politica tra gli intellettuali, ma nel profilo intellettuale del nucleo dirigente del partito, caratteristica sconosciuta a tutti gli altri partiti europei. Gli scritti del carcere di Antonio Gramsci, pubblicati da Togliatti tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta, si rivelarono – scrive Silvio Pons – una formidabile risorsa strategica del Pci in quanto presentavano un forte intreccio con la cultura filosofica e storica italiana, che forniva come tale una fonte di legittimazione nazionale. Il punto cruciale da non smarrire tuttavia è che la storia della sinistra italiana fu dominata dalla scelta di separarsi dalla socialdemocrazia e dalla impossibilità per il Pci di un distacco radicale da quella scelta. Scelta che impedì al sistema politico italiano di ruotare intorno all’alternanza al governo tra conservatori e socialisti. Con tutte le conseguenze che questo ebbe dal punto di vista complessivo dello sviluppo democratico del Paese.
3) Il vero limite della sinistra italiana del dopoguerra non fu quello delle occasioni mancate per la rivoluzione bensì la sua insufficienza riformista. Ha pagato il prezzo l’Italia che non ha potuto contare su una esperienza di modernizzazione analoga a quelle guidate in Europa dalla socialdemocrazia. Mentre in Italia gli intellettuali della sinistra si dedicavano a ricercare appigli per feconde distinzioni dalla banale socialdemocrazia, il Paese perdeva il treno della modernizzazione. L’Italia ha conosciuto una profonda trasformazione e tuttavia non è stato privo di conseguenze che essa non sia stata guidata da una formazione politica socialdemocratica ma dal partito democristiano. I caratteri distorti del modello di sviluppo italiano hanno la loro radice in questa anomalia politica del nostro Paese: l’assenza di una sinistra coerentemente riformista. Una sinistra dotata della cultura politica originata dalla grande tradizione socialdemocratica. Quella che è all’origine del welfare state e della impresa vincente della riforma del capitalismo.
4) La sinistra italiana è stata impermeabile alle tensioni prodotte nella cultura socialista europea dalla disputa revisionista avviata dai “Presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia”di Eduard Bernstein. L’opera che introduce con un secolo di anticipo tutti i temi che diverranno costitutivi della cultura riformista: il nesso democrazia socialismo, la percezione del liberalismo come criterio guida del socialismo democratico, la ridefinizione della socialdemocrazia come approfondimento del processo democratico aperto dalla Rivoluzione francese, il ripudio di ogni visione del socialismo come società globalmente alternativa al capitalismo. Più che con Bernstein il socialismo italiano preferirà interloquire con Sorel. Sarà il viatico di quella opposizione intransigente al riformismo, ridotto a versione strutturalmente debole del cambiamento, e di alcuni miti, lo sciopero generale, l’azione diretta che costituiranno il lievito intellettuale dei “marxisti” italiani.
5) Costantemente dissimulata e occultata, stenterà ad emergere la contraddizione tra l’opera di riforma e di sviluppo democratico che sarà l’obiettivo del Pci e il modello totalitario dell’Urss. In realtà fu forte nel Pci un duplice convincimento. Il primo che, nonostante gli orrori di Stalin, nonostante i drammi che lo stesso Togliatti aveva visto e conosciuto, nei paesi dell’Est fosse intervenuta una rottura rivoluzionaria che, abolendo lo “sfruttamento dell’uomo sull’uomo”, aveva gettato le basi di un regime qualitativamente migliore delle società capitalistiche. Questa, la grande illusione. Il secondo convincimento lo ricorda Emanuele Macaluso in un suo bel libro: «Secondo la lezione di Togliatti l’Urss rompeva il blocco imperialista e costituiva un punto d’ancoraggio per chi si batteva per il socialismo anche con mezzi democratici; lezione – osserva Emanuele – fatta propria da tutti i suoi eredi, Longo, Berlinguer, Natta e Occhetto». Insomma, da una parte il Pci ha contribuito ad allargare le basi del consenso alla Repubblica con l’inserimento nella vita democratica di masse popolari, ha promosso e guidato battaglie di emancipazione economica e sociale, dall’altra, quelle convinzioni hanno reso impossibile l’assunzione di responsabilità di governo alla sinistra. Solo dinanzi al crollo del socialismo reale si prenderà faticosamente (non mancheranno ambiguità) atto della necessità di una svolta. Ma questa è già un’altra storia.
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