L’intervento dell’altro ieri di Galli della Loggia sul Corriere della sera coglie un punto già da tempo condiviso da costituzionalisti e scienziati della politica: la supremazia del Governo sulla debolezza del sistema politico-partitico.
Certo è una tesi che meriterebbe minori semplificazioni. Quello dei partiti deboli è un po’ un luogo comune visto che le loro politiche pubbliche continuano a riscuotere un certo consenso elettorale. Basti pensare al successo elettorale del M5S nel 2013 e nel 2018 o all’attuale costante ascesa, secondo i sondaggi, di Fratelli d’Italia per rendersi conto che le loro fortune continuano a dipendere dalla capacità d’intercettare le istanze e gli interessi della collettività. La loro crisi sta altrove, e innanzi tutto nell’assenza dai territori, frutto anche della dissennata abrogazione del finanziamento pubblico, per cui le loro politiche vengono percepite come calate dall’alto anziché frutto dell’interlocuzione con la società civile.

In secondo luogo, e paradossalmente, la forza del governo Draghi sta anche nella larghissima maggioranza che lo sostiene. Certo, questa è frutto dell’autorevolezza e del prestigio dell’attuale presidente del Consiglio nel gestire l’emergenza pandemica e socio-economica, ma lo stesso Draghi sa che “andare avanti” senza o contro i partiti sarebbe impossibile. E le attuali polemiche sull’introduzione dell’obbligo vaccinale dimostrano come ci sono dei limiti oltre cui prudentemente l’azione dell’esecutivo non intende spingersi. Infine, è una tesi che meriterebbe maggiore precisione sotto il profilo giuridico-costituzionale perché nei sistemi semipresidenziali il Governo non dipende da una gassosa “volontà del Paese” (che, per le sue venature totalitarie e la sua conformazione monolitica sarebbe sempre meglio non evocare, tanto più da parte di uno storico) ma da un capo dello Stato ad elezione diretta e che deve ottenere la fiducia del Parlamento, e quindi delle forze politiche di maggioranza che decidono di sostenerlo.

Piuttosto, più che di semipresidenzialismo di fatto, parlerei di una delle possibili declinazioni cui il sistema parlamentare, per sua congenita flessibilità, si presta proprio in relazione alla conformazione e alla stabilità del sottostante sistema politico. Siamo, infatti, passati da un sistema parlamentare consociativo, in cui erano i partiti forti che decidevano in Parlamento le sorti dei Governi (con conseguente loro instabilità), a uno tendenzialmente maggioritario, in cui la bipolarizzazione del sistema politico, indotta dalle leggi elettorali, permetteva agli elettori di scegliere chi doveva andare al Governo e chi all’opposizione (con coalizioni, specie di centro sinistra, destinate però a sfaldarsi in corso di legislatura). Il successo elettorale del M5S, trasformando il sistema da bipolare a tripolare, ha reso tale scenario ormai impraticabile. Inutile quindi lamentarsi dei governi che nascono e muoiono in Parlamento se il corpo elettorale è profondamente diviso (la vicenda delle vaccinazioni è a suo modo terribilmente paradigmatica) e incapace perciò di esprimere maggioranze parlamentari solide e non drogate da abnormi premi elettorali di maggioranza.

Se si vogliono piuttosto svolgere delle considerazioni di sistema, come tali di lungo periodo, la figura che si staglia non è quella del presidente del Consiglio ma del presidente della Repubblica che è il vero motore di riserva cui il sistema parlamentare ricorre sempre più spesso quando il principale, basato sulla forza dei partiti, si imballa. Non a caso si parla da tempo, e con sempre maggiore fondatezza, di forma di governo sì parlamentare ma “a correttivo presidenziale”, cioè con un Capo dello Stato che, come la fisarmonica, sempre più “apre” (e sempre meno “chiude”) i suoi poteri in conseguenza della instabilità del quadro politico. Ciò spiega, peraltro, perché la prossima elezione del nuovo Capo dello Stato diventa un appuntamento politico decisivo ai fini non solo della continuità dell’azione di governo ma anche della posizione dell’Italia nel contesto europeo.

Il punto allora è chiedersi se il protrarsi di tale sovraesposizione politica del Capo dello Stato sia destinato a diventare alla lunga insopportabile per cui debba sfociare in una riforma costituzionale che ne formalizzi e legittimi il ruolo, introducendone l’elezione diretta, oppure se, al contrario, bisogna creare le condizioni perché tale sovraesposizione ritorni a essere eccezionale, rafforzando le istituzioni di governo e, con esse, i partiti. Se prima alla debolezza delle istituzioni suppliva la forza dei partiti, oggi a partiti “deboli” non possono continuare a corrispondere istituzioni deboli. Vasto programma, avrebbe detto il De Gaulle che Galli della Loggia cita, e sulla cui realizzabilità su queste colonne lo scorso 12 marzo abbiamo espresso più d’una riserva.

Siamo passati dalle grandi riforme costituzionali, entrambe bocciate nel 2006 e nel 2016, al vendicativo taglio dei parlamentari che, in assenza dei necessari interventi attuativi (soprattutto in sede di regolamenti parlamentari), rischia di produrre pesanti conseguenze negative sulla funzionalità dell’attività delle camere, specie al Senato. Né le riforme approvate (voto dei 18enni al Senato, così come alla Camera) e quelle in fase di discussione (diminuzione dei delegati regionali) sembrano all’altezza degli attuali problemi. Lo stesso governo Draghi, a dimostrazione di quanto sopra si diceva circa la consapevolezza del proprio mandato limitato, si tiene opportunamente alla larga dal campo minato delle riforme elettorali e costituzionali. Il che dimostra che sulle grandi riforme di cui necessita il sistema politico-istituzionale vi è ancora una profonda spaccatura tra le forze politiche, riflesso a sua volta della incapacità loro e della loro classe politico-parlamentare – in questo come in altri campi – di avere una visione di sistema capace di andare oltre l’immediato tornaconto politico.

È il paradosso delle riforme: necessarie per rimediare alla debolezza dei partiti ma impossibili proprio a causa di tale debolezza. Cinque giorni fa cadeva il 75° anniversario dell’approvazione da parte della II Sottocommissione dell’Assemblea costituente dell’ordine del giorno “Perassi” che si pronunciava “per l’adozione del sistema parlamentare da disciplinarsi tuttavia con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”. Siamo ancora fermi lì.