Nel fine settimana è andata così: mentre Meloni e Salvini, che nella vita reale sono Titti e Silvestro, si abbracciavano e quasi baciavano a favore di telecamere in riva al lago di Como, l’eurodeputato Goffredo Bettini, l’uomo che sussurrava alle orecchie di Zingaretti e ha inventato l’alleanza strutturale Pd-5Stelle, era ospite della festa del Fatto Quotidiano dove ha argomentato perché «è sbagliato dire che il governo Draghi sia il governo del Pd quando è invece un governo di garanzia repubblicana».

Sempre dallo stesso pulpito, Bettini ha suggerito che la soluzione migliore per Draghi sarebbe di optare per il Quirinale già a febbraio e quindi sciogliere le Camere a andare a votare. In pratica mentre il centrodestra tubava sul lago di Como col sottotitolo «prove tecniche di governo» (ma nel 2023) distribuendo miele tra i leghisti più insofferenti al governo Draghi («era quello che volevo vedere, sono felice e rassicurato» ha detto il ni-vax Claudio Borghi) il Pd ufficializzava l’ennesima spaccatura interna. Il contrario di quello che dovrebbe fare visto che spifferi e tensioni ce ne sono già abbastanza. Il segretario Letta, affranto, infatti ammoniva: «Guardate che il centrodestra fa finta di essere diviso, l’odore della vittoria lo farà compattare. A maggior ragione il Pd e il centrosinistra devono restare uniti e compatti in questa fase».

Bettini andava subito corretto, per spazzare via ambiguità. Non l’ha fatto il segretario Letta. Ci ha dovuto pensare il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, anima riformista del Pd alla guida della corrente Base Riformista, a metter le cose in chiaro: «L’ho già detto più volte e lo ripeto: l’agenda di Draghi fatta di riforme, equità, autorevolezza e crescita è l’agenda del Partito Democratico. Lasciamo ad altri l’esigenza di distinguersi quotidianamente per nascondere le loro difficoltà a riconoscersi in queste priorità. Noi questo imbarazzo non lo abbiamo e non capisco l’esigenza di inventarcelo». Parole durissime e anche chiarissime pronunciate in vece di un segretario talmente prigioniero delle lotte da non aver la forza di raddrizzare chi sbaglia strada. O comunque imbocca una strada non condivisa con la direzione del partito. E già, qual è la strada del Pd: sinistra-sinistra? Sinistra-centro o centro-sinistra? Riforme sì, ma quali: assistenziali o competitive? Diritti civili, certo: ma fino a che punto? E, soprattutto, quando? Infine Conte: che rapporto c’è tra l’avvocato del popolo diventato leader del Movimento e il segretario Letta? Veramente c’è ancora chi lo immagina leader della coalizione di centrosinistra (sembra di questa opinione Bettini) senza neppure pesare quanto ancora valgono le sue truppe?

Tante domande. L’agosto non ha portato risposte. Anzi: la scelta di correre a Siena, per le suppletive Camera, senza mostrare il simbolo del Pd è un prezzo alto da pagare in nome dell’unità di tutto il centrosinistra ma è anche una bella garanzia di buon esito della competizione. Il pasticcio nella Capitale si è ancora più complicato: Pd e 5 stelle sono uno contro l’altro; Conte appoggia Virginia ma in realtà lavora per Gualtieri visto che a Primavalle, un altro collegio Camera da votare, i 5 Stelle non hanno presentato il loro candidato (c’è invece il candidato del Pd). Che avrebbe tirato la volata a Raggi sindaco e disturbato la corsa di Gualtieri. La ripresa dell’attività parlamentare consegna insomma plasticamente irrisolto il grumo del Pd, della sua identità e delle sue alleanze. Mentre la data del 3 ottobre e delle amministrative si avvicina a passo levato. In palio non ci sono solo 1261 comuni tra cui Roma, Napoli, Bologna, Milano e Torino e la regione Calabria. Il centrosinistra, pur acciaccato, rischia di “vincere” un po’ ovunque, la più incerta è Torino (anche qui spaccatura insanabile con i 5s). La Calabria è data quasi per persa. Questo risultato sarebbe una blindatura per Letta e il cantiere con Conte. Se però le cose dovessero andare male – e qui scatterà la gara a fissare il punto della vittoria e della sconfitta – un attimo dopo si apre il tema della segreteria del Pd.

La scorsa settimana sono accaduti due fatti, solo in apparenza scollegati. Dalle feste dell’Unità è emerso in modo chiaro la rivolta dei sindaci Pd, ad esempio Ricci e Nardella, che chiedono la modifica del regolamento nel passaggio in cui pretende che i sindaci di comuni sopra i 20 mila abitanti se vogliono candidarsi in Parlamento devono dimettersi da sindaco sei mesi prima. Praticamente al buio. Senza alcuna garanzia. I sindaci hanno più volte chiesto di cambiare la norma ma non è successo. «Legittimo sospettare – hanno detto – che in questo si voglia impedire la candidatura a chi nel partito opera sul territorio, ha un seguito, è popolare ed ha i voti». Magari ne soffia pure qualcuno dall’altra parte. Sicuramente toglie spazio a chi vorrebbe essere ricandidato. L’altro fatto che, prima ancora di Bettini, ha fatto alzare la temperatura nel partito è stata un’assemblea riunita da remoto che venerdì sera ha apportato qualche modifica tecnica allo statuto in base alle indicazioni arrivate dalla Commissione Trasparenza della Camera il 6 luglio. La modifica consiste nel fatto che è stato ribadito con più forza che «sei mesi prima della scadenza del mandato il segretario deve indire il congresso per eleggere il successore». Letta, che fu acclamato e non votato nei gazebo, dovrebbe quindi fare il nuovo congresso in autunno, ottobre 2022, sei mesi prima della scadenza naturale (marzo 2023). Questa la versione più accreditata. Al di là del tecnicismo, la sostanza è chiara: l’intervento a gamba tesa di Bettini dimostra che la maggioranza del Pd farà di tutto perché a fare le liste delle prossime politiche nel 2023 sarà Letta e non un altro segretario eletto con primarie nell’autunno del 2022. È sono tutti più che certi che in quelle liste la corrente di Base Riformista e degli ex renziani sarà azzerata.

C’è qualcuno nel Pd che «si preoccupa della mano che scriverà le liste per le prossime politiche perché teme di essere escluso» dice un esponente della maggioranza. Ora, spiegano autorevoli fonti dem, «indire il congresso non significa che questo viene celebrato sei mesi prima». Il segretario, infatti, può anche decidere di celebrare il congresso 20 giorni prima la scadenza del mandato, e indire per quella data l’inizio della fase congressuale. E comunque, sottolinea un componente della direzione del partito «il congresso si farà dopo le politiche». Punto. Nel dubbio in serata ieri è arrivato anche un comunicato della segreteria: «Non cambia nulla, Letta resta segretario fino al 17 marzo 2023». Si rassegnino pure i riformisti di Base Riformista. «Vorrebbero il congresso per candidare Bonaccini contro Letta e, così facendo, sperare di ottenere un posto in lista» aggiunge un esponente della sinistra.

Base Riformista non ci sta a passare per la minoranza minacciosa destinata a scomparire. «Ora pensiamo a vincere le amministrative, inutile fare polemiche. Sono altri che hanno interesse a buttarci la croce addosso. Br ora è concentrata sulle amministrative perché se si vince alle amministrative, vince tutto il Pd». Certo, le fughe in avanti di Bettini su Conte, sul governo Draghi che «non può essere il governo del Pd» e sul voto anticipato sembrano smentire la maggioranza dem e dare ragione a Base riformista. A destra si baciano pur odiandosi. A sinistra si mettono le dita degli occhi e magari non arrivano neppure all’odio.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.