La scelta del segretario del Pd di correre alle suppletive di Siena senza il simbolo del partito, e con un richiamo esplicito alla sua persona (“Con Enrico Letta”), è solo l’ultima e la più grave delle sue stravaganze. Sorprende più in generale la estrema diversità degli accenti riscontrabili nel dibattito pubblico tra i protagonisti della politica tedesca e le figure opache di quella italiana. Un tempo Germania e Italia erano accomunate dal politologo Klaus von Beyme come componenti di sistemi appartenenti “all’El Dorado della partitocrazia”: partito di massa, sindacati, centri di elaborazione programmatica, insomma una politica ad elevata densità organizzativa. Oggi qualcosa di solido permane tra mille difficoltà in Germania, in Italia invece è tutto irreparabilmente evaporato nella liquidità antipolitica. La distanza tra i due sistemi è diventata ormai abissale.

A un mese dal voto, l’incertezza è grande a Berlino e però i segnali di ripresa della Spd sono registrati da tutti i sondaggi. Ebbene, nessuno in Germania (tanto meno i socialdemocratici dati in testa ma con il 24 per cento delle preferenze) perde il suo tempo nella costruzione della coalizione pre-elettorale che si avvicini al 50 per cento dei consensi. Non si vedono leader di partito tra i verdi, i socialisti, la sinistra radicale sbilanciarsi incautamente nell’indicare in un capo dell’altro partito (peraltro) il punto di riferimento dei progressisti. Nessuno dei leader si preoccupa di mostrare la competitività del proprio partito attraverso l’indicazione preventiva della coalizione sulla carta vincente.

Questa mania tutta italiana di stringere patti prima del voto non esisteva ai tempi della Prima repubblica, è diventata una abitudine di questi ultimi tre decenni anche se è stata provvisoriamente spezzata dalla crescita del terzo polo grillino. La dottrina delle “mani libere” era la forma più cruda e trasparente nell’Italia repubblicana per esprimere l’essenza di una contesa entro un regime parlamentare che i governi li forma solo dopo il voto registrando in aula i rapporti di forza misurati nel paese. L’ideologia della democrazia maggioritaria (non la realtà di Westminster) è declinata dagli anni 90 come obbligo per i partiti di mostrarsi competitivi attraverso la politica delle alleanze come promessa di vittoria. In Inghilterra i laburisti non hanno mai pensato seriamente di stipulare un’intesa con i liberali per contendere il potere ai conservatori. In altri paesi europei si possono incontrare desistenze in caso di doppio turno, ma l’entità coalizione in quanto tale (e con un programma e un leader comune) non esiste dai tempi almeno della unità della gauche francese.

Il segretario venuto dalla Francia riduce l’elaborazione programmatica del Pd a qualche tweet sull’universo mondo, esaurisce il radicamento organizzativo a qualche viaggio nella periferia. L’essenza della politica è ritenuta essere quella della individuazione delle forze da unire sotto il comando di un comune candidato premier. Tutta questa ginnastica poteva avere anche un senso nel tempo del Porcellum quando l’aggregazione eterogenea di forze disparate era necessaria per raccogliere un voto in più e acciuffare il premio di maggioranza. Con l’attuale formula mista a prevalenza proporzionale non reggono le giustificazioni vagamente tecniche collegate alle coercizioni in direzione coalizionale sollecitate dalla legge elettorale. La quota di seggi da assegnare nelle circoscrizioni elettorali maggioritarie è inferiore a quella tedesca e appunto in Germania, con la metà dei seggi attribuiti in collegi uninominali maggioritari, nessuna formazione politica dedica il prezioso tempo dell’agire politico a costruire coalizioni prima del voto.

Pare che il leader della Spd vinca (nei sondaggi) non per una qualche venatura pseudo-carismatica (assente) ma per il diffuso apprezzamento conquistato tra i cittadini nel corso della sua seria funzione di governo. Invece di prendere le misure del leader di un altro partito per nominarlo punto di riferimento di un campo largo, il Pd dovrebbe lavorare su due terreni: riprogettazione organizzativa e orientamento efficace dell’azione di governo su punti qualificanti.
E invece prevale ogni volta un realismo da squattrinati che punta a rompere le coalizioni nemiche e a muoversi, come si dice stancamente, nelle contraddizioni delle forze antipolitiche per strappare margini di accordi coalizionali a spezzoni disponibili all’abboccamento. Questo eterno esercizio trasformista, che consente al Pd di andare al governo anche quando perde, non può però sostituire alla lunga la costruzione di una cultura politica, di un referente sociale, di una macchina organizzativa. Il governo di tregua dopo, e i governi gialloverde e giallorosso prima, hanno visto la partecipazione di tutti i partiti all’esecutivo. Non può funzionare per questo il grido disperato sul “pericolo Salvini” dopo che tutti sono stati al governo con la Lega.

Se in nessuna democrazia europea l’azione politica è dominata dalla idea di costruire alleanze prima del voto una ragione di fondo ci deve pur essere. E in “errore” non sono gli inglesi, i tedeschi, gli spagnoli che dispongono di identità partitiche tra loro competitive e le coltivano una volta appassite. Forse anomala è la politica italiana che annichilisce identità, differenze e riduce la politica al momento elettorale affrontato con le acrobazie tattiche necessarie per l’espressione del potenziale capo di governo. L’ingovernabilità del sistema imperniato su friabili coalizioni si vendica però del disprezzo per la identità di ciascuna forza politica e in Parlamento riemergono sigle, entità, divorzi (come quello di Salvini che per accasarsi con Conte tradisce Berlusconi). La prospettiva del governo non può essere affidata all’alleanza che da strumento (preferibilmente post-elettorale) diventa il fine della politica con conseguenze devastanti sulla funzionalità del sistema (reiterato tradimento del mandato elettorale) e sulla vitalità dei raggruppamenti.

L’idea che sta dietro il mito della coalizione come essenza del realismo politico che non può rinunciare all’aspettativa di vittoria è quella che la sconfitta al voto rappresenta un evento irreparabile. Ma su queste basi di costante allarme democratico non esiste più politica, si dà solo la simulazione di una guerra civile. Se a spaventare è la quota maggioritaria del meccanismo elettorale che potrebbe avvantaggiare la destra compatta, non c’è alternativa alla modifica concordata a suo tempo tra Pd e M5s nell’ottica di uno scambio tra proporzionale e riduzione del numero dei parlamentari. Invece di insistere sull’adempimento di questo antico patto, Letta ha invertito la rotta della politica istituzionale propugnando nuove aggregazioni uliviste nel quadro di un rafforzamento del maggioritario.
Si naviga a vista e con occhiali deformanti. Si procede con tentativi di varare finte coalizioni che si stipulano in gran fretta e all’istante si sfaldano al primo scossone perché prive di ogni struttura portante.

La fisiologia del sistema esigerebbe la proporzionale (con clausole integrative di cultura politica: convenzioni per rendere possibili anche governi di minoranza) come incoraggiamento per precisare l’identità di ciascun attore politico. E invece la politica viene sospesa perché il gioco ruota attorno alla individuazione di un leader sotto il cui scettro stringere sante alleanze scambiando così la patologia per realismo politico. Davvero in Italia c’è splendido e attivo uno straordinario laboratorio di innovazione politica e in Europa i partiti sono invece tutti guidati da leader rincitrulliti che non vedono le belle e magnifiche sorti della coalizione da indicare prima del voto? Il leader di un partito che accantona il simbolo perché tira meno del nome di una persona è il segno della lunga malattia della politica italiana.