La storia del plurisecolare Monte dei Paschi non si può concludere con l’operazione Unicredit nei termini in cui essa viene riportata nelle cronache, anche se vi è ancora da sperare che modalità, condizioni, vincoli e connesse prospettive siano diversi da quelli intanto resi noti. Una verifica sarà compiuta domani quando il Ministro dell’economia, Daniele Franco, riferirà sul caso alle competenti Commissioni parlamentari.

Per lungo tempo il Monte era stata la terza banca italiana. Le ingerenze partitiche non solo della sinistra, ma anche gli agganci delle forze economiche, sociali, finanche religiose e del mondo associativo avevano colto i vantaggi di quella che un tempo era la beneficenza (le erogazioni liberali per scopi statutari meritevoli di essere sostenuti), ma la governance dell’Istituto, la sua organizzazione, il legame con il territorio, l’orgoglio dei dipendenti unito alla laboriosità e competenza avevano fatto sì che non ne venisse intaccata la stabilità con una sana e prudente gestione. Intanto aumentavano, nel contesto nazionale, le sfide della concorrenza. Dalla riforma della banca pubblica, agli inizi degli anni Novanta, il Monte non si sente scosso perché comunque la maggioranza assoluta del suo capitale può restare in mano alla Fondazione, espressione degli enti del territorio, a cominciare dal Comune senese. Ricordo che una nutrita delegazione, allora del Pci di Siena, prese parte, a riunione già iniziata, a una discussione che si tenne a Roma sugli aspetti ancora da definire della predetta riforma. Questi partecipanti, però, acquisita la certezza che sarebbe rimasto sul Monte il controllo pubblico dissero che, a quel punto, potevano andare via, disinteressandosi di tutto il resto. Ma tale controllo non esimeva dall’innovare nell’organizzazione e nelle strategie, dal rafforzarsi sul piano della competitività, dal capire che un’epoca era arrivata al crepuscolo e che molte conquiste sarebbero state messe in discussione, donde l’esigenza di attrezzarsi per difenderle e ulteriormente svilupparle.

A un certo punto il Monte ritiene che non può non partecipare a iniziative di aggregazione; acquista la Banca 121 pagandola molto di più del suo valore; si pone altri obiettivi di concentrazione poi rapidamente abbandonati. Fra questi, un po’ più di tempo dedica a una ipotesi di concentrazione con la Bnl, ma l’operazione non va in porto perché si vorrebbe un ruolo dominante della Fondazione, cosa che non può essere accolta dal possibile partner e nemmeno, in questi termini, dalla Banca d’Italia, considerato il generale processo di riduzione delle partecipazioni delle Fondazioni in istituti pubblici. Vengono ricercati “protettori” romani tra i quali non vi è, come invece alcuni hanno scritto, Massimo D’Alema. Intanto, l’organizzazione e l’impostazione strategica non sembrano tenere il passo con le maggiori banche italiane. Si profilano problemi di adeguatezza delle risorse disponibili per operazioni di aggregazione. A questo punto, però, il Monte, come capita per istituti che pensano a soluzioni salvifiche integrandosi con altri, concepisce ed attua la sciagurata acquisizione di Antonveneta, facendo la gioia del leader del Santander, Don Emilio Botin; la banca spagnola ha solo le carte del recentissimo acquisto dell’istituto padovano, nel quale non si è neppure insediata; le trasferisce al Monte e lucra una plusvalenza quasi tre volte superiore al prezzo di acquisto, un record a livello internazionale purtroppo regolarmente autorizzato: di qui tutti i mali che hanno contrassegnato 12-13 anni della vita del Monte fino a oggi. Casi di “mala gestio” e di ipotesi di gravi illeciti vengono a galla riguardanti i vertici in carica nel primo decennio del Duemila, sui quali, però, si attendono i giudizi finali della magistratura prima di una valutazione definitiva; si alternano le governance; si opera per fare uscire l’istituto dal pelago alla riva.

A un certo punto lo Stato effettua una ricapitalizzazione precauzionale, per evitare il dissesto, e acquisisce così il 64 per cento del Monte. Sarebbe comico, se non fosse grave, che due banchieri di particolare capacità, esperienza e correttezza, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, chiamati al vertice del Monte per risanarlo, evitano il crollo, pongono il Monte su di un sentiero di sia pur lenta risalita, ma poi vengono inquisiti sulla base di motivazioni opinabili, a Milano, e condannati in primo grado, dopo che la Procura aveva reiteratamente richiesto l’archiviazione.

Dopo questa serie di errori e violazioni è immaginabile che a pagare sia l’Istituto senese che sarebbe acquisito da Unicredit non si capisce se come “spezzatino” o “spezzatone” o integralmente con condizioni ovviamente tutte da verificare. E che riguardano la “dote” complessiva a carico dello Stato, il rapporto con il territorio, famiglie e imprese, il futuro dei dipendenti, soprattutto cosa resta della Banca e cosa viene ceduta, le alternative possibili. Se si afferma che di queste ultime non ve ne è alcuna, allora ci si consegna a mani e piedi all’abilità nota di un negoziatore, qual è Andrea Orcel, amministratore delegato di Unicredit. Sarebbe poi possibile che la prima prova nel campo bancario di due ex banchieri centrali, Mario Draghi, ex Presidente della Bce ed ex Governatore della Banca d’Italia, e Daniele Franco, ex Vice Direttore Generale della stessa Banca, approdi, ora che sono titolari delle funzioni di Governo, a un risultato insostenibile e criticabile da diversi punti di vista? È un imperativo categorico, dunque, ricercare una soluzione equa, equilibrata, anche in considerazione del fatto che la vicenda è ormai diventata politica e con chiari riverberi internazionali. Dopo tanto parlare di “migliori”, siamo al punto in cui si può dire, riferito al Governo, titolare del 64 per cento del Monte, “Qui si parrà la tua nobilitate”.