Il Pd a un bivio: rinnovare o restare il partito dell’establishment. Il Riformista ne discute con Massimiliano Smeriglio, europarlamentare dem, già vice presidente della regione Lazio.

In una intervista a questo giornale, Nadia Urbinati ha definito il Pd come una “confederazione di fazioni”, tenute insieme da logiche di potere piuttosto che da una visione condivisa. Se così è, la domanda viene spontanea: perché Enrico Letta dovrebbe riuscire laddove il suo predecessore, Nicola Zingaretti, ha fallito?
Urbinati ha indicato un problema, anzi due. Il primo è l’idea della confederazione. Il Pd ha questo imprinting. Nel tempo il primo problema ha generato il secondo: il Partito si è trasformato da progetto ambizioso, maggioritario, di incontro e sintesi delle culture democratiche del nostro Paese (comunisti, democristiani, socialisti e repubblicani) in deriva correntizia in cui alla appartenenza culturale si è sostituita la fedeltà al capo bastone. L’ambizione del partito della nazione, la condanna a governare, ha un senso se hai percentuali importanti che, giustamente, inducono a fare i conti con la responsabilità. Percepirsi in questo modo ed avere numeri sotto il 20% determina un corto circuito con l’opinione pubblica. A torto o ragione il Pd è percepito come il partito del potere, pagando spesso un prezzo alto, ben al di là delle proprie responsabilità. In questo senso è difficile indicare elementi programmatici distintivi dei Democratici. La Lega è il partito anti immigrati e della flat tax, i Cinquestelle sono il movimento del reddito di cittadinanza e del giustizialismo. Il Pd non si capisce bene quale idea di società abbia, non traspare profilo distintivo. A Letta vanno fatti i migliori auguri, si è caricato un compito difficilissimo. Il Pd come Kronos si nutre dei propri figli-Segretari che, inevitabilmente, sono costretti non solo alle dimissioni ma anche, alla lunga, a subire l’oblio. Osannati appena eletti – tutti renziani, tutti zingarettiani, tutti lettiani – disarcionati all’abbisogna e poi bruciati come capri espiatori, con lo scopo di non discutere e di caricare tutti i fallimenti sul corpo del Segretario. In questo modo le fazioni continuano a controllare e determinare le scelte che contano. Fazioni nazionali e potentati locali, il Pd appare un luogo sequestrato difficilmente modificabile. Nicola aveva la spinta delle primarie e di Piazza grande, le sue dimissioni, con parole durissime, sono una denuncia senza appello della meccanica che tiene in ostaggio il Partito. Il fatto che non si sia riflettuto collettivamente, negli organismi dirigenti, di quanto accaduto è la cifra delle difficoltà del Pd ad elaborare se stesso, i propri lutti, le vittorie, le sconfitte. Spero davvero che Letta riesca. Dispone di vantaggi importanti: ha una struttura culturale autonoma, dispone di un altro lavoro e conosce perfettamente le dinamiche del Pd, avendole vissute sulla propria pelle. È consapevole della volubilità del consenso interno.

Nel suo discorso d’investitura, Letta ha posto con forza il tema dell’identità. Ma se non viene declinata nel merito, “identità” non rischia di essere una parola vuota, priva di senso politico e di anima culturale?
L’identità è il cuore di una storia irrisolta. L’identità ha a che fare con la cultura politica, l’idea di società, le priorità programmatiche, il sistema delle alleanze, persino il linguaggio che usi, gli stili di vita. Perché ciò che educa non sono le parole, ma la coerenza e la credibilità con cui si tiene insieme ciò che si dice con ciò che si fa. Se dici che Salvini è un pericolo per la democrazia usando per un anno toni da CLN e poi finisci per governarci insieme, come impatta questa piroetta con la parte del Paese che crede nei valori costituzionali? Con coloro che fanno, nelle parrocchie o tra il volontariato laico, della lotta al razzismo la propria cifra? Se dici che credi nella transizione ecologica e poi discuti di come trivellare l’Adriatico e del ponte sullo stretto ma come pensi possa reagire un blocco generazionale che ha un approccio radicale sul clima? L’identità non è vincolo, può invece essere la bussola per orientarsi tra le fratture che tagliano in mille frammenti la società contemporanea. E senza bussola si finisce per perdersi. Per questo credo molto nel lavoro che stiamo facendo con Goffredo Bettini e con tante altre persone, non solo del Pd, che hanno a cuore la rigenerazione valoriale del Campo progressista. Il 14 presenteremo il manifesto delle Agorà. Senza una ricostruzione identitaria e culturale la politica muore, soffocata dal ritmo sincopato delle mosse tattiche e degli interessi dei singoli. Urge la ricostruzione culturale come gesto volontario collettivo. Il 14 aprile sarà il primo passo con un grande evento pubblico organizzato ovviamente da remoto. Ed è interessante come le Agorà siano il centro del nostro ragionamento e anche di quello di Enrico Letta. Apertura, partecipazione democratica, pensieri lunghi e valori forti. Uno spazio di ricerca comune.

Negli ultimi 15 anni il centrosinistra, con l’Ulivo prima e il Pd dopo, ha vinto una sola volta le legislative, eppure è stato, ed è tuttora, al governo per 11anni. È il virus del “poltronismo”. Stare all’opposizione fa così tanta paura?
Non penso che il problema sia il poltronismo, piuttosto credo che questi ultimi dieci anni abbiano modificato le mentalità del gruppo dirigente diffuso, asciugando sempre più la base intesa come aggregato libero, indipendente. Se hai governato con Monti, Alfano, Grillo, Conte, poi Salvini, declinando in un senso e nell’altro la salvezza nazionale va a finire che ti perdi, perché l’unica cosa che resta è appunto l’antico riflesso condizionato della responsabilità. Ma la responsabilità dovrebbe essere usata per trasformare il Paese e non per conservare. In una strana eterogenesi dei fini il Pd rischia di tramutarsi nel polo della conservazione, abbandonando il campo dell’innovazione e della giustizia sociale. Galeotto fu quel “ma anche”. Ricordo che in nessuna parte d’Europa i progressisti governano con i nazionalisti. E in tutta Europa esistono, seppur in difficoltà, partiti politici socialisti, movimenti della sinistra alternativa e aggregazioni ecologiste. In Italia questa tripartizione non è visibile ad occhio nudo. Ecco ricomincerei da questo doppio sguardo europeo per capire quali compiti ci aspettano per superare la dannazione dell’anomalia italiana. Il Pd nasce come tentativo di modernizzazione del Paese utilizzando la fase alta della globalizzazione e del liberismo temperato, bicamerali e allegre privatizzazioni comprese. Oggi ci troviamo in tutta altra fase economica e sociale, soprattutto la storia non è andata esattamente come la immaginava il gruppo dirigente storico post comunista. Ammettere l’errore di lettura di quel passaggio storico è il primo passo per superarlo. Soprattutto superare la sensazione che quel gruppo dirigente si porti dietro uno stigma per aver osato sognare un mondo più giusto. Un senso di colpa che ha determinato la subordinazione al pensiero dominante. Il pensiero critico ha retto meglio tra le fila dei movimenti sociali e tra il cattolicesimo di base, entrambi presenti nelle straordinarie giornate di Genova 2001.

Il centrosinistra è pieno zeppo di “rifondatori” e “federatori”. Ultimo, in ordine di tempo, è Giuseppe Conte. Non vede il rischio che per il Pd più che un’alleanza quella con i 5Stelle rischi di trasformarsi in un “abbraccio mortale”?
Siamo dentro l’ennesimo smottamento del sistema politico. L’arrivo di Draghi ha diviso i Cinque Stelle, accelerato le dimissioni di Zingaretti, spezzettato LeU, riposizionato la Lega. E siamo solo all’inizio. Tuttavia aver contribuito a spostare il movimento di Grillo nel campo progressista è un merito enorme del Pd di Zingaretti. Certo bisogna lavorare ancora sodo sui fondamentali, come ad esempio il ripristino della centralità del garantismo come pietra angolare della qualità della nostra democrazia. Ciò detto solo lavorando ad una coalizione plurale larga ci sarà la possibilità, nel prossimo futuro, di contendere il Paese alle destre nazionaliste. Sarà però una alleanza competitiva tra più soggetti. Conte farà lealmente la propria parte, costruendo un movimento innovativo, ecologista, partecipativo, capace di ingaggiare un corpo a corpo con le élite che tanto lo hanno osteggiato. Ci sarà una riaggregazione della sinistra civica ecologista, così come un polo liberaldemocratico. Il tema è quale profilo assumerà il Pd in questa scomposizione e ricomposizione del campo largo del centro sinistra. Questa la sfida del prossimo anno.

Sulla strada del rapporto Pd-5Stelle c’è Roma, città che lei conosce politicamente molto bene. Virginia Raggi ha riproposto la sua candidatura a sindaco. Letta ha preso tempo. Lei come la vede?
Raggi invece di dedicarsi alle sofferenze dei cittadini colpiti dalla pandemia e dalla crisi, ad esempio mettendo in campo politiche su reddito, affitti, ristori, politiche sociali, annuncia un sistema di delazione per denunciare gli assembramenti, investendo sulla faglia invece di ricucirla. Indica ai cittadini un nemico, altri cittadini. In politica il merito conta. Una esperienza quella Raggi inemendabile. Dobbiamo organizzare il nostro campo, senza furbizie o scorciatoie. Coalizione larga, un programma coraggioso e innovativo, le primarie per indicare il candidato sindaco. Una coalizione aperta alle esperienze irregolari di solidarietà e mutuo aiuto che, in questi anni, hanno resistito e progettato il futuro, come Liberare Roma del giovane Amedeo Ciaccheri. Esperienze preziose, presenti nei quartieri di periferia, che la politica ufficiale stenta a vedere. Roma merita il meglio e non accordicchi tra correnti. Se lavoreremo in questa direzione potremmo tornare a vincere.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.