Il “nuovo Pd”, speranza fattibile o ennesima illusione? Il Riformista ne discute con Enrico Rossi, ex presidente della Regione Toscana.

Il Pd divora i suoi segretari ma non molla le poltrone di Governo. Non è che sia il “poltronismo” il vero male dei dem? L’opposizione fa così paura?
Il Pd nasce con uno statuto elettoralistico che attraverso primarie aperte elegge un segretario che diviene il candidato premier. Se vince fa il primo ministro. Se non vince si dimette e cede il posto al suo vicesegretario. È accaduto e riaccadrà se non cambiamo qualcosa di profondo. Questo ha al contempo svuotato il ruolo dell’organizzazione territoriale e dei militanti. È naturale che a queste condizioni l’opposizione viene vissuta con estremo disagio. Ha ragione Cuperlo quando sottolinea il paradosso del nostro partito. Più perde più vuole governare. Su questo pesa e ha pesato anche il voler essere partito della stabilità e della responsabilità. La convinzione che stare al governo limita i danni per il paese in generale e per quel popolo che ancora intendiamo rappresentare. È un pensiero apprezzabile ma il suo limite di fondo è l’idea che l’impegno politico possa risolversi affrontando i problemi con piccole correzioni e non interrogandoci sulle contraddizioni di fondo. Aspetti che riguardano l’assetto sociale ed economico. La mia impressione e che abbiamo rinunciato al conflitto e all’idea di riforme profonde. Una svolta che nasce prima del Pd e che ci ha fatto trovare impreparati di fronte alle crisi e trasformazioni del capitalismo conclamatesi almeno a partire dal 2008. Alla lunga questo ha prodotto una separazione tra il Pd e larghi strati popolari che Letta ha ben colto quando ha detto che il Pd non deve più essere il partito del “potere”. Vuole una sintesi? Avevamo detto mai con i Cinque Stelle e poi ci abbiamo fatto un governo. Avevamo detto mai con Salvini e adesso governiamo con la Lega. Non riusciremo facilmente a toglierci di dosso quest’immagine “poltronara” ma dobbiamo provarci. Con Conte e con il movimento Cinque Stelle si stava ricomponendo uno schieramento che aveva trovato larghi consensi tra gli strati popolari anche grazie a un leader molto apprezzato e seguito. Un progetto strategico che doveva valere non solo per il governo e per le elezioni. Un’intuizione di Nicola Zingaretti e di Goffredo Bettini. Ma anche una linea condivisa da tutto il partito. Quando però Conte è caduto a causa di logiche parlamentari su cui non è il caso di tornare, una parte del Pd che aveva condiviso e votato ogni decisione in questo senso, si è scorrettamente scatenata contro il gruppo dirigente, come se quella scelta non fosse anche sua. Ma sono certo che da lì bisognerà passare ancora. Per rilanciare quell’impegno e costruire uno schieramento democratico e vincente. È quello che anche Enrico Letta ha presentato come suo piano d’azione.

L’araba fenice chiamata “identità”. Non c’è un dirigente della sinistra che non la evochi. Ma si resta all’evocazione. In una intervista a questo giornale, Paolo Mieli, con una intelligente provocazione, ha consigliato ai dirigenti del Pd un ritorno al passato, ai principi che furono a fondamento dei grandi partiti sociali della sinistra. Il ritorno alle origini non è più auspicabile che un “modernismo” senza visione né progettualità?
Non penso a un ritorno al passato se non nel senso di valori e fondamenti che sono nella Costituzione. Il Pd nasce da una storia cattolico democratica, socialista e comunista democratica. Ma poi a prevalere nei fatti è stata spesso una variante liberal progressista, più adeguata alla tendenza governista. Parlavamo di Tony Blair e della “terza via” con quasi venti anni di ritardo. Esaltavamo la globalizzazione e il capitalismo finanziario quando queste entravano in crisi. Questa rigidità ci fa essere “fuori sesto”, disconnessi (out of joint, direbbe Shakespeare) rispetto alla “qualità dei tempi”. Oggi, dopo la crisi pandemica, crisi sociale e morale, non solo sanitaria, è necessaria un’ispirazione chiara. La ritroviamo nel socialismo e nel cristianesimo. Su questo negli ultimi tempi ha dedicato le sue acute riflessioni soprattutto Goffredo Bettini. Nel socialismo per la capacità che ha avuto di inserire nello “stato democratico” come cittadini consapevoli milioni di lavoratori. Nel cristianesimo per il richiamo alla persona e per un’elaborazione di spunti e visioni che il Papa in persona conduce su temi come ambiente, immigrazione e tutela dei più deboli. Solo l’incontro tra queste due correnti, che esistono in varie forme forti e profonde nel paese, potrà dare identità e carattere al Pd. Questo comporterà scelte nette e la ricostruzione di un partito radicato nella società a prescindere dallo stare o meno al governo.

Lei in passato ha spesso sottolineato che una forza di sinistra o è un partito del lavoro, e dei lavoratori, o non è. Non crede che nel dibattito a sinistra, e nel Pd, sfugga o comunque sia fortemente sottovalutata la crisi di rappresentanza sociale. Più che un partito del lavoro il Pd viene percepito come il partito dell’establishment, delle élite.
La sinistra ha bisogno oggi di presentarsi come forza di cambiamento. Posso sbagliarmi, ma nel discorso di Letta – che ho molto apprezzato per solidità e per la capacità di riabilitare un centro politico e programmatico nel quale ci siamo potuti tutti riconoscere – mi pare che manchino due elementi. Il primo è riconoscere con nettezza che la crisi pandemica impone alla politica e alla società una svolta. Enunciare che anche quando sarà terminata l’emergenza la ripresa non sarà un ritorno al passato. In questo senso partire da un’elaborazione della crisi in corso come “cambiamento” sociale e ambientale che viene dal campo cristiano cattolico e che il Pd deve sapere interpretare. Il secondo elemento è un riferimento più netto all’essere noi il principale partito di riferimento dei lavoratori. Il lavoro e i lavori hanno riacquisito centralità. Solo dalla riaffermazione della tutela e dei diritti dei lavoratori si può ridefinire l’identità di un partito come il Pd. Evitare l’inerzia di restare il partito delle ZTL. La sfida con la Lega e con i populisti si combatte prevalentemente su questo terreno. Quello dei diritti di rappresentanza e tutela sociale. Ciò non significa non avere un’aspirazione maggioritaria o smarrire la capacità di rivolgerci ad ampi e variegati strati sociali, all’impresa o alle professioni. Ma vuol dire operare una svolta di 180 gradi rispetto alle politiche che abbiamo fatto nei decenni precedenti e che hanno eroso i diritti sino al culmine del ‘jobs act’. Non dovrà essere un ritorno all’operaismo o al partito delle rivendicazioni corporative, ma alla centralità dei lavoratori come cittadini. Insieme alla questione sociale e ai conflitti distributivi ci sono pericoli globali che minacciano il pianeta e ci riguardano tutti a prescindere dal censo e dalla geografia. Il lavoro, le condizioni di lavoro e di vita sono ancora una volta un collante molto ampio e penetrante. Siamo tutti sotto un cielo fatto di rischi che derivano dalle nostre scelte e dai nostri comportamenti. È il tempo che gli scienziati chiamano “antropocene”. Una modernità in cui, per la sinistra, devono valere due bandiere. Quella classica della protezione sociale e quella nuova legata a rischi ambientali e sanitari da cui dobbiamo proteggerci. Il lavoro è un valore trasversale. Alla produzione di ricchezza, sicurezza sociale, ambientale e biologica, alla qualità della democrazia.

Nel Pd si è aperto un altro fronte: quello dei nuovi capigruppo alla Camera e al Senato. Letta punta ad una “rivoluzione” rosa ma i mal di pancia non mancano.
Letta ha capito, e fa bene ad intervenire sui capigruppo delle due Camere e a volerli sostituire con due donne. Delrio ha accettato subito e questo gli fa onore mentre Marcucci ha provato a resistere. E c’è chi si è spinto fino ad adombrare una “vendetta” politica postuma di Letta. Il punto è se il segretario abbia, oppure no, il diritto di dirigere il partito e determinare l’assetto dei gruppi dirigenti. Se non fosse così mi si dovrebbe spiegare perché l’altra domenica abbiamo eletto Letta segretario del partito quasi ad unanimità. Ora non possono riprendere i giochi delle correnti e delle poltrone che tanti danni fanno al Pd.

Lei è stato nel Pd, poi ne è uscito per aderire ad Articolo 1 e poi ha deciso di rientrare nella casa madre. A sinistra del Pd si assiste ad una scissione dell’atomo trasportata in politica. Dividersi è il male oscuro della sinistra. E oggi cosa consiglierebbe al suo amico Bersani?
Ho riconosciuto che uscire è stato un errore, anche se non mancavano certo le ragioni per criticare le politiche del Pd “renziano” e quel clima di disagio che in quella fase era costretto a vivere chi non aderiva al culto del “capo”. Sono rientrato spinto innanzitutto dalla necessità di vivere, conformemente a tutta la mia vita, in un partito di massa, non in una piccola formazione. A Bersani direi che quel popolo di sinistra che con Articolo 1 andavamo a cercare nella foresta non ha risposto al nostro richiamo. Bersani ha però ragione quando propone una fase costituente che a mio avviso dovrebbe essere l’avvio delle ‘agorà’ a cui anche Letta, dopo Bettini ha fatto riferimento. Non mi permetterei di dare consigli a Bersani che non ne ha bisogno, ma segnalo un allarme generale. Se non vogliamo fallire una seconda volta, la fase costituente non potrà configurarsi come un mero rientro di gruppi dirigenti, ma come un’effettiva apertura a quel popolo ancora ampio che si considera ancora di sinistra e cerca spazio e voce. Il metodo è semplice: quello di una democrazia coerente, partecipata e deliberante. Che fa sentire chi sta in una comunità politica un co-decisore delle scelte fondamentali, programmatiche e politiche. A pensarci bene è anche qui la Costituzione col suo articolo 49, cui dobbiamo dare piena attuazione come ha detto Letta, a indicarci la strada.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.