Tutto vero. Nessun ripensamento. Il Pd è tecnicamente da ieri pomeriggio un partito senza segretario. E in pieno congresso. Intorno alle 17 Nicola Zingaretti ha depositato alla presidente Valentina Cuppi, la lettera di dimissioni, con i motivi ormai noti: «Basta logoramento, basta sparare sulla Segreteria, tutto quello che è stato deciso in questo anno è frutto di Direzioni concluse con voto quasi unanime. Quindi, visto che sono io il problema, faccio un passo di lato e ciascuno si assuma le proprie responsabilità».

Nessun “ripensamento”, dunque. Zingaretti non torna indietro e va fino in fondo. Lasciando il Pd in una vertigine da vuoto che adesso costringe tutti ad uscire allo scoperto, rimboccarsi le maniche e capire cosa vuol essere o diventare. “Il re è nudo” avevano detto i fedelissimi giovedì sera, a poche ore dal post pubblicato su Facebook. Sono tanti i “re messi a nudo”. E tra loro anche molti di quelli che gli sono stati al fianco in questi due anni di segreteria e di vita politica tormentata. Statuto alla mano. Ecco cosa può succedere adesso.

Con le dimissioni – vane e forse anche ipocrite le richieste di ritirarle o non depositarle; velleitario e depistante, perché tecnicamente impossibile, che siano respinte – decidono tutti gli organismi dirigenti. Restano in carica la Presidente Cuppi, la quarantenne sindaca di Marzabotto che Zingaretti ha voluto alla presidenza del Pd ma di cui, purtroppo, si ricorda soprattutto il fatto che nella lunga crisi di questi mesi, non le è mai stata data la parola. Resta in carica il tesoriere, Walter Verini, che a questo punto detiene oltre che la cassa, il simbolo. È la parte più visibile di quel che resta del veltronismo del Pd, del Pd delle origini, quello a vocazione maggioritaria, plurale, di governo. Resta in carica, soprattutto, l’Assemblea, l’organismo che dovrà eleggere il nuovo segretario e che da ieri pomeriggio è nei fatti un grande seggio elettorale.

L’assemblea era già stata convocata da Zingaretti per sedare le polemiche, le accuse incrociate, i fallimenti di una linea politica, soprattutto l’appiattimento sul Movimento 5 Stelle e a Conte che si rivela essere, come era facile prevedere, il commissario liquidatore del Partito democratico. L’appuntamento, a distanza e da remoto, è per il prossimo fine settimana (13-14 marzo). Decadono tutte le altre cariche, a partire dal vicesegretario Andrea Orlando. Nella prossima settimana può succedere di tutto. Tutto quello che segue sono ipotesi suggerite da una parte o dall’altra del Pd. Perché una cosa è certa: l’uscita di scena di Zingaretti metti tutti, e proprio tutti, davanti alle proprie responsabilità. Il tempo dei giochetti, che purtroppo hanno segnato i 14 anni di vita e i ben sette segretari che hanno guidato il partito (il più longevo è stato Matteo Renzi), è a questo punto definitivamente finito.

L’assemblea è sovrana e può accadere qualunque cosa. Anche che qualcuno presenti un ordine del giorno per riproporre Zingaretti: ipotesi del terzo tipo, non praticabile considerate le affermazioni dello stesso segretario dimissionario. Sulla carta Zingaretti controlla il 66% dell’assemblea. In questa maggioranza relativa si sono ritrovate, finora, varie correnti: Orlando (circa il 30%); Franceschini (il 20%); e poi Veltroni, Emiliano, la nuova corrente di Bettini che è stata la riserva di Zingaretti ma forse adesso vuole camminare senza, Cuperlo, Delrio su cui sono confluiti anche gli ex di Martina (ora impegnato nella Fao). Al di fuori di questo 66%, si trovano gli ex renziani di Base Riformista (20%) e i Giovani turchi di Matteo Orfini.

Chiunque nell’assemblea può in teoria avanzare la propria candidatura a segretario con una propria piattaforma. Non esiste la figura del segretario reggente come già lo sono stati Guglielmo Epifani e Maurizio Martina. Esiste un segretario eletto dall’assemblea che ha come primo ed esclusivo compito quello di condurre il partito al congresso e alle primarie. Un congresso costituente e chiarisca una volta per tutte chi è il Pd e poi decida con chi nel caso allearsi. Che poi è quello che con toni diversi hanno chiesto, un attimo dopo che si è insediato il governo Draghi, Lorenzo Guerini e Luca Lotti, leader di Base Riformista, Orfini e i Giovani turchi ma anche il senatore Luigi Zanda che giovedì, ignaro delle dimissioni e qualche minuto prima che Zingaretti le formalizzasse, ha rilasciato un’intervista in cui ha chiesto “un congresso vero”, che ridia senso e sostanza e identità al Pd che «deve diventare il partito di riferimento del governo Draghi evitando che finisca in mano alle destre». E anche perché «Giuseppe Conte non può più essere il federatore e meno che mai il punto di riferimento dei progressisti». In pratica un ciao grosso come una casa alla linea del Pd, del segretario e all’alleanza strutturale con i 5 Stelle che nell’ultimo anno ha avuto come sponsor principale Goffredo Bettini.

Ora, è importante capire che dietro Zanda, insieme a Zanda, si muove il ministro Dario Franceschini che al pari di Zingaretti è stato a lungo sponsor della linea federativa con 5 Stelle e Conte. Salvo poi rendersi conto, in questi giorni, che Conte toglie voti al Pd e li regala al Movimento. Non ci voleva molto per capirlo. È stato utile pensarlo come contesto utile ad altre partite. Comunque, una cosa è certa: l’avvio del congresso del Pd certifica la fine di ogni alleanza strutturale con i 5 Stelle in quanto tale. Nel caso, saranno loro a ritrovarsi nel Pd. E nel nuovo futuro segretario.

«I problemi posti da Zingaretti sono seri e dovremo affrontarli in assemblea» ha detto la presidente Cuppi. C’è da chiedersi perché allora non abbia accettato la richiesta di indire il congresso che è il luogo naturale e deputato dove discutere e capire quale identità avere – banalizzando, più a sinistra o più al centro – in un mondo che dopo la pandemia sta cambiando rapidamente. Rispetto all’agenda Draghi, come si posizionerà il Pd? A favore del riformismo, come chiedono Base Riformista e i sindaci, da Gori a De Caro passando per Nardella? Il congresso era il luogo deputato per discutere. Lo aveva già chiesto, a settembre, il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini, da tempo indicato da più parti come il profilo più idoneo per fare il segretario. Zingaretti, ancora all’inizio di questa settimana, aveva concesso il confronto tematico ma non il congresso. Poi la situazione è precipitata, all’improvviso. Bonaccini ha parlato solo ieri nel pomeriggio tardi.

«Zingaretti sbaglia a lasciare, si discuta invece di Paese e non di Pd. Ci ripensi, quindi, e resti al suo posto per ritrovare la forma e la sostanza al Pd». Affermazione che ha irritato i fedelissimi di Zingaretti: «Curioso, poteva dirla a Nardella», il sindaco di Firenze che ha chiesto il congresso per definire l’identità del Pd. Continua il coro di “Nicola ripensaci”. Difficile che succeda. «La sensazione – suggerisce un parlamentare di Base Riformista – è che tutti coloro che puntano il dito contro di noi debbano in realtà coprire un loro cambio di posizione». E che Zingaretti, che non voleva il Conte 2 e neppure il governo Draghi, alla fine si sia stufato di fare l’utile punchingball per tutti tranne che per se stesso. E così li ha salutati, su due piedi.

Il segretario dimissionario potrebbe aver capito, ad esempio, che anche l’exit strategy che un po’ tutti gli avevano prospettato – fare il sindaco di Roma – è uno dei tanti tranelli. Non è un caso che giovedì, un paio d’ore dopo la notizia delle dimissioni, sia uscita una dichiarazione dell’ex ministro economico Gualtieri molto aperta verso l’ipotesi Campidoglio. Per sé, però. Non per Zingaretti. La politica è piena di Giuda. Gira già il nome di Roberta Pinotti, franceschiniana doc, una donna per guidare il partito verso il congresso. E poi si vedrà. Tace colui che tutti si aspettano dica qualcosa: Matteo Renzi. Troppo presto per parlare. I giochi per la segreteria sono appena iniziati.

Avatar photo

Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.