Landini: il Jobs Act va abrogato. Non rassegniamoci al precariato a vita”. A sostegno della raccolta firme per l’iniziativa referendaria contro la riforma varata nel 2015 dal governo Renzi, la CGIL rilancia sul proprio sito ufficiale il titolo di una lunga intervista rilasciata ieri a Repubblica dal segretario Maurizio Landini. Sebbene ancora non siano stati resi noti, è la stessa organizzazione sindacale ad anticipare i temi dei quesiti. Saranno quattro e riguarderanno, nella sostanza, la disciplina dei licenziamenti definita dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, le tutele contro i licenziamenti illegittimi nelle imprese fino a 15 dipendenti, la reintroduzione delle causali nel contratto a tempo determinato e la responsabilità del committente nelle catene degli appalti.

Temi molto diversi tra loro, ma il messaggio del sindacato guidato da Maurizio Landini si concentra sul Jobs Act come simbolo della precarizzazione del lavoro. In questa prospettiva, il minimo che dovremmo aspettarci è una esplosione dei contratti precari a far data dall’entrata in vigore, nel 2015, del Jobs Act. Del resto, lo stesso Segretario richiama il dovere di fare un bilancio della riforma e di riconoscere che è “sbagliata”.  Se, però, esaminiamo i dati Istat sulle forze lavoro, scopriamo che nel 2015 la quota dei contratti a tempo determinato era del 19,9%, mentre alla fine del 2023 è scesa al 13,9%. Merito del Jobs Act? Sarebbe uno sbaglio sostenerlo, perché è sempre azzardato stabilire semplicistiche correlazioni tra riforme del mercato del lavoro e numeri dell’occupazione. Ma, in mancanza di ogni fondamento fattuale, la domanda è: sulla base di cosa la CGIL stabilisce una correlazione tra aumento della precarietà e Jobs Act, al punto da rivolgersi al voto popolare per la sua abrogazione?

La sensazione è che si sia di fronte a una iniziativa tanto suggestiva e nobile nei fini (abrogare la precarietà), quanto velleitaria e infondata nei presupposti. Eppure il sindacato non può ignorare dove si annida la vera precarietà. Nella piaga endemica del lavoro irregolare, innanzitutto. Quello che sfugge ai troppo deboli controlli degli organi ispettivi, ma anche alla volontà politica delle istituzioni che, nei territori, spesso fingono di non vedere. Il lavoro precario è nei falsi contratti autonomi, che finalmente possono essere contrastati grazie all’articolo 2 del D.lgs 81/2015, una norma rivoluzionaria introdotta dal Jobs Act (sì, proprio lui). Non è un caso che i rider, nuovi simboli del precariato povero, siano infine riusciti a ottenere le tutele del lavoro subordinato invocando quella norma. Il lavoro precario è anche figlio della ubriacatura decrescista e del mantra “piccolo è bello”, che ha fatto terra bruciata attorno ai campioni dell’industria nazionale e ha indirizzato le già scarse risorse pubbliche in mille inutili rivoli, a sostegno di un tessuto micro-imprenditoriale destinato a soccombere alle prime scosse delle sempre più frequenti crisi globali.

Ma cosa c’entra il Jobs Act con tutto questo? Chi chiama i cittadini ad abrogare il Jobs Act dovrebbe sentire il dovere di informare i cittadini su cosa effettivamente esso sia. Piaccia o no, si tratta dell’ultima e probabilmente più organica riforma del lavoro, partita da una legge delega del parlamento nel 2014 e attuata con ben 8 decreti legislativi del governo: il D.Lgs. 22/2015 relativo all’introduzione di nuovi ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria; il D.Lgs. 23/2015, sul contratto a tutele crescenti; il D.Lgs. 80/2015, sulla conciliazione tra tempi di vita e di lavoro; il D.Lgs. 81/2015 relativo al riordino dei contratti di lavoro e alla disciplina delle mansioni; il D.Lgs. 148/2015 sulla riorganizzazione della disciplina degli ammortizzatori sociali in costanza di rapporto di lavoro; il D.Lgs. 149/2015 relativo all’attività ispettiva in materia di lavoro e legislazione sociale; il D.Lgs. 150/2015 in materia di politiche attive; il D.Lgs. 151/2015 sulle semplificazioni in materia di lavoro e pari opportunità. Pur non facendone tecnicamente parte, ne è stata il sostanziale completamento la legge 81/2017 sullo Statuto del lavoro autonomo e sul lavoro agile (il c.d. smartworking). Una riforma complessa che, nel suo insieme, ha retto l’urto della crisi economica del 2019, del Covid-19 e della crisi globale innestata dall’invasione Russa dell’Ucraina. Una riforma che ha ridotto le distanze tra il diritto del lavoro italiano e quello degli altri paesi europei, ai quali guardiamo spesso con malcelata invidia. Forse è per questo che il referendum, in realtà, non punta affatto a demolire l’architettura del lavoro disegnata dal Jobs Act, ma concentra tutta la sua forza d’urto – ancora una volta, è il caso di dire – sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Si direbbe che, per scaldare le piazze, la CGIL abbia scelto la via facile del ricorso al mito. Il mito di un articolo 18 che fu, ma che negli anni ha subito tali e tante modifiche che la sua resurrezione per via referendaria sarebbe comunque impossibile. Tant’è che l’operazione avrebbe l’esito, semmai, di far rivivere l’articolo 18 nella versione della legge Fornero del 2012.

Certo, abrogare è più facile che indicare nuove traiettorie e, soprattutto, lavorare per realizzarle. A guardare oltre ogni pregiudizio e ogni scorciatoia, il vero problema del Jobs Act, oggi più che mai, è che è rimasto incompiuto in una sua parte fondamentale, quella delle politiche attive del lavoro e della costruzione di un sistema di formazione professionale continua e di massa. Il sindacato tutto, CGIL compresa, è consapevole che è lì l’origine e la possibile soluzione dei più gravi problemi del mercato del lavoro italiano. Se in un equilibrio, come quello attuale, straordinariamente favorevole alla offerta (scarsa) rispetto alla domanda (sempre in crescita) di lavoro, gli stipendi italiani continuano ad essere tra i più bassi di Europa, è evidente che stiamo pagando un enorme deficit di competenze. Di quel valore, cioè, che oggi è cruciale per le imprese e per il quale soltanto sono disposte ad aumentare le retribuzioni.

Nel 2016 il segretario Maurizio Landini ha firmato, da leader della FIOM, il primo contratto collettivo nazionale in cui veniva enfaticamente affermato il diritto soggettivo dei lavoratori alla formazione. Una svolta che pareva preludere a una nuova stagione della politica sindacale, pronta a raccogliere la sfida della rivoluzione tecnologica e battersi per il diritto dei lavoratori di aggiornare le proprie competenze non solo in funzione della conservazione del posto di lavoro, ma anche nella prospettiva di una mobilità nel mercato. Ma lo stesso Landini sa bene che quel diritto è rimasto largamente inattuato e, nei fatti, del tutto insufficiente a realizzare quell’obbiettivo. A fronte di una occupazione che cresce, anche e soprattutto nella componente a tempo indeterminato, restiamo intrappolati in quello che l’OCSE ha definito come low-skills equilibrium, basso livello di competenze generalizzato, che frena la produttività e la creazione di valore, con una drammatica ricaduta sui salari. Purtroppo l’iniziativa referendaria non ha nulla a che fare con tutto ciò. E così siamo ancora qui, nel 2024, ad assistere all’ennesima battaglia sull’articolo 18 che potrà, forse, scaldare i cuori facendo leva sull’effetto nostalgia, ma non potrà offrire alcuna risposta concreta ai veri problemi che affliggono il lavoro di oggi e le sue prospettive future.

Maurizio Del Conte

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